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29/10/2020 06:00:00

E se smettessimo di fingere? Un appello per teatri e cinema chiusi

Sono giorni che mi tornano alla mente alcuni versi di Salvatore Quasimodo. Sono versi che tutti conoscono, di quelli che impariamo a memoria alle elementari; il cui senso in realtà poco si capisce, alle elementari, e forse anche dopo. Sono versi, dicevo, di una famosa poesia di Quasimodo, che si intitola «Alle fronde dei salici». Una poesia che ha la forma di una lunga domanda, di quel genere di domande che vengono definite retoriche perché se ne intuisce immediatamente la risposta. Le domande retoriche potrebbero anche non essere poste, per la loro ovvietà, ma vengono formulate comunque: per rimarcare l’assurdità di una situazione, per sottolineare una posizione evidente.

Quindi, la poesia di Quasimodo, che ha la forma di un lungo interrogativo retorico, comincia così:

E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?

Lo scrittore siciliano si riferisce alla Seconda Guerra Mondiale terminata da poco più di un anno, è il 1946. E dice dell’impossibilità di esprimersi durante una catastrofe. Quando tutto, invece, sembrerebbe sancirne l’esigenza, l’estrema necessità: la poesia, la musica, il teatro ci aiutano proprio ad attraversare i periodi di crisi, di emergenza, li sublimano, saziano e fortificano l’anima. Ci sarà sempre qualcuno che ricorderà che durante l’assedio di Leningrado, durato tre anni, i leningradesi continuavano ad andare ai concerti e a teatro. E quel qualcuno rimarcherà, poi, giustamente, che è stata una delle ragioni della loro resistenza e sopravvivenza.

Quasimodo, invece, durante l’assedio italiano, «con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti ammazzati nelle piazze», si rifiuta di continuare. E propone la sua istanza come una posizione assolutamente fisiologica, naturale (E come potevamo noi cantare…?). Ci sono dei momenti, prova a scrivere Quasimodo, dei momenti gravissimi, quando il senso di morte si approssima a noi come mai prima, quando il sacrificio individuale di pochi si presta alla salvezza di tanti, ci sono dei momenti in cui un Paese deve ammantarsi di silenzio. E manifestare così la sua unica, intransigente forma di resistenza.

Quasimodo finisce la sua poesia con appena tre versi, che non sono una risposta a quella domanda. Non ci può essere risposta a una domanda retorica, la domanda retorica possiede una risposta già insita nella sua espressione. Gli ultimi tre versi, tuttavia, descrivono il gesto che compie Quasimodo a seguito di quella domanda retorica.

Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

Appendere le cetre alle fronde dei salici.

Ecco, sono giorni che mi tornano in mente questi versi di Salvatore Quasimodo. Forse perché ormai inconsciamente s’è radicata in me l’idea del Coronavirus come «la nostra guerra», e quindi è spontaneo saccheggiare il primo immaginario disponibile, che mi riporta alla stagione dei nonni, e per alcuni dei nonni dei loro nonni. Ma suggestionato dalle disposizioni del DPCM del governo Conte sulla chiusura di teatri e cinema, a condizionare il ricordo di questa poesia è stata soprattutto la domanda che la apre.

Perché è come se Quasimodo ci stesse dicendo: «E se smettessimo di fingere?». E se smettessimo di raccontarci che i teatri e i cinema sono posti sicuri, e ci accorgessimo che stiamo andando inesorabilmente incontro, di nuovo, a una chiusura totale? E se smettessimo di evidenziare tutte le contraddizioni del governo, che chiude i teatri e i cinema la sera, ma li tiene aperti la mattina per permettere che si facciano alcune lezioni all’università? E se smettessimo questo insostenibile homo homini lupus, il tutto contro tutti, ribadendo il tutti chiusi o nessuno?

Perché in quel «E se smettessimo di fingere?» risiede un senso di realtà che manca, che ci manca, che manca a tutti. Le prime chiusure - ci rendiamo conto che sono solo le prime, vero? - non devono essere la miccia per la rivolta, ma il segnale, il fuoco di bengala, della nostra presenza e della nostra coscienza della situazione. Non è tempo di rivoluzioni, non è tempo di guerre civili. E' tempo di riporre le cetre alle fronde dei salici e attendere. Attendere che a poco a poco tutto chiuda. E che poi riapra. Per ricominciare, ancora una volta. Sempre.

Marco Marino