Cominciamo oggi il nostro speciale dedicato al centenario della nascita di Gesualdo Bufalino, che nacque a Comiso il 15 novemebre 1920. L'abbiamo voluto intitolare Le dicerie di don Gesualdo e ci accompagnerà nelle trame dei suoi libri e delle sue persone: non per provare a trovare qualcosa di inedito o inesplorato, ma per recuperare il piacere di perdersi tra le sue parole.
di Marcello Benfante
“So che l’Autore mi rispetta; lo sento in fondo alle ossa; quando voi e io avemmo quella discussione sulla porta del fortino, di chi credete prendesse le parti, eh?”
Robert Louis Stevenson, I personaggi del racconto
Gesualdo Bufalino, di cui quest’anno si celebra il centenario della nascita, è stato sempre intenso, con esclusiva attenzione al suo prezioso usus scribendi, soprattutto come un maestro di stile. Definizione parziale e inadeguata, perfino riduttiva e superficiale, che contiene peraltro un duplice malinteso: riguardo all’autore, da un lato, e riguardo allo stile, dall’altro; essendo lo scrittore di Comiso, pur nella sua raffinata e rarefatta eleganza, tutt’altro che un retore disattento al gioco delle trame e dei personaggi, e lo stesso stile, in ordine semantico, ben più che una pura cifra formale, bensì un dato intrinsecamente connesso ai temi e ai contenuti.
Quello che qui si riassume approssimativamente nel “gioco delle trame” è un tratto caratteristico e ben noto delle sue architetture barocche o postmoderne, ovvero della sua propensione ironica al pastiche, alla citazione parodica.
Ma, su questo aspetto della sua opera, la critica ha molto scritto e riflettuto. Forse invece andrebbe approfondito l’interesse di Bufalino (come narratore oltre che come saggista) per la figura centrale e sistemica del personaggio, troppo spesso risolta in un più o meno diretto autobiografismo (da cui cero muove, a partire ovviamente da Diceria dell’untore, ma per approdare a meno speculari declinazioni).
Si tratta di un interesse che ovviamente promana dalla lezione pirandelliana, ma che si può anche ricondurre a Marcel Proust.
In particolare, mi pare, a quel passo della Recherche in cui Proust, riflettendo sulla verità dei personaggi letterari, afferma:
“Ma tutti i sentimenti che la gioia o la sventura d’un personaggio reale ci fa provare non possono nascere in noi senza l’intervento di una immagine di quella gioia o di quella sventura; l’ingegnosità del primo scrittore fu d’intendere come, essendo l’immagine il solo elemento essenziale nell’apparato delle nostre emozioni, la semplificazione consistente nel sopprimere puramente e semplicemente i personaggi reali sarebbe stata un perfezionamento decisivo” (1).
La differenza tra personaggi in carne e ossa e personaggi di carta è in primo luogo di tipo sensoriale:
“Un essere reale, per quanto profondamente muova la nostra simpatia, è in gran parte percepito dai nostri sensi: ci resta cioè opaco, offre un peso morto che la nostra sensibilità non può sollevare”.
Diversamente accade in letteratura.
“La trovata del romanziere fu d’aver sostituito a quelle parti impenetrabili all’anima una pari quantità di parti immateriali, che la nostra anima può assimilare”.
Il che, in ultima analisi, conferisce al personaggio letterario, per così dire immaginifico, una maggiore leggerezza e brillantezza che lo rende più autentico, più vero e reale del personaggio corporeo.
Da qui un primato del personaggio, in campo narrativo e non solo, che travalica peraltro la stessa letteratura e perviene a una sintesi espressiva dell’esperienza umana nella sua interezza.
Sulla propria predilezione per la figura del personaggio, Bufalino è intervenuto più volte con chiarezza. Lo ha fatto, per esempio, in una lunga intervista raccolta da Paola Gaglianone e Luciano Tas in un denso volumetto (2).
A una domanda sulle dinamiche del triangolo autore-lettore-personaggio, e in particolare se ritiene che quest’ultimo sia una creatura autonoma o un semplice portavoce, Bufalino risponde di condividere “entrambe le ipotesi di relazione”, non intendendole come reciprocamente escludenti.
“Da una parte non credo nell’esistenza dei miei personaggi, dall’altra mi illudo che siano macchine intelligenti, capaci di uscirmi di mano e di vivere una vita propria. Mi identifico con loro e me ne distacco quanto basta per amarli o odiarli come persone. È anche vero però che al tirare delle somme essi risultano con evidenza una stessa persona che mi somiglia, né fanno nulla per nasconderlo”.
Il personaggio è a suo modo sincero, trasparente. Il che non toglie che possa talora dimostrarsi anche ostile.
“Il personaggio è dunque un multiplo, un ectoplasma plurale che mi fuoriesce dalla bocca ed è me, non è me, è mio servo e padrone, una escrezione che, come in certi film fantascientifici dell’orrore, prima mi replica, quindi mi si rivolta e mi succhia, mi mangia, mi espelle, mi ride alle spalle e scompare”.
Un avversario, quindi. Un deuteragonista che si oppone al protagonismo dello scrittore e del lettore.
La sua importanza è talmente pervasiva che in certi casi “perfino il paesaggio diventa personaggio” e si adegua al sentimento dell’autore. 36
Per questa ragione un testo centrale nell’opera di Bufalino è certamente il Dizionario dei personaggi di romanzo (3), epitome flaubertiana (nel senso dell’opera catastale di Bouvard e Pecuchet) in cui si allineano, non senza alcune defezioni, gli squartamenti romanzeschi – da “tigre ircana o critico strutturalista” – della materia viva di cui sono fatti i personaggi letterari.
Significativo, in tal senso, è il titolo dell’introduzione che Bufalino assegna al suo volume antologico: “Passione per il personaggio”.
Dei personaggi, infatti, ci si può innamorare, talora pazzamente, in modo appassionato, come e più degli esseri umani di cui essi sarebbero una sorta di spettrale e rivelatrice proiezione.
Come ogni altra passione sconvolgente, anche quella per il personaggio, questo fantasma, questo “doppio” perturbante, conduce fatalmente a una sorta di alienazione. È un “amour fou”.
Tale passione ha infatti, ab origine, un che di assurdo. Non a caso Cervantes ci consegna con Don Chisciotte il “gradevole paradosso” di un personaggio che costituisce da un lato il “capostipite degli eroi di romanzo” e dall’altro, contraddittoriamente, “un eroe che insanisce leggendo romanzi”.
L’indagine sugli ingovernabili personaggi consente peraltro a Bufalino di perlustrare l’evoluzione storica del genere romanzesco, eludendo doverosamente ogni “programmatica teoria del narrare”.
Il discorso verte soggettivamente sull’Io, ora autobiografico, in forma più o meno simulata, ora invece sospeso come acrobata circense sui “doppi fondi e le mille manovelle nascoste nella macchina della finzione”.
Un “Io”, dunque, che talora si arrampica esternamente sulle pericolanti “impalcature dell’intreccio”, ma poi gradualmente se ne affranca per interiorizzarsi sempre più, con uno slittamento sensibile dall’ipertrofico all’ipotrofico, dal monologo logorroico all’afasia.
Ma sebbene ridotto talora all’impotenza, il personaggio permane, resiste, insiste, e tende comunque a collocarsi al centro della narrazione. Come d’altronde permane il romanzo, mille volte dichiarato morto, e rivela la sua intenzione di dichiararsi “indistruttibile”, di voler perennamene risorgere, trasfigurarsi e meravigliarci.
Le sorti del romanzo, la sua stessa eterna crisi, sembrano perciò legate a quelle del personaggio, e viceversa, in un intrico indissolubile: un rapporto simbiotico che include la pluralità e la metamorfosi, l’arringa e il silenzio, la continuità e la dissoluzione, il nome e la cancellazione.
1) Marcel Proust, La strada di Swann, traduzione di Natalia Ginzburg, Torino, Einaudi, 1978
2) Gesualdo Bufalino, Essere o riessere, a cura di Paola Gaglianone e Luciano Tas, Òmicron Editrice, Roma, 1996
3) Gesualdo Bufalino, Dizionario dei personaggi di romanzo, Il Saggiatore, Milano, 1982