Continua il nostro speciale sulla figura e l'opera di Gesualdo Bufalino, Le dicerie di don Gesualdo. Quest'oggi siamo felici di ospitare l'intervento del presidente dalla Fondazione Gesualdo Bufalino, Giuseppe Digiacomo.
T.B.C. Queste le lettere stampigliate su una cartellina cerulea a nome Bufalino Gesualdo con un timbro intinto in un tampone dall’inchiostro rosso. Quando mio padre mi raccontava quest’episodio del 1947, gli si disegnava in viso lo sbigottimento, il dolore, l’orrore per ciò che aveva scoperto sulle vicissitudini della salute del suo migliore amico.
Con lui erano stati compagni di scuola alle elementari, al ginnasio, poi si erano separati al liceo per due anni, giacché a Comiso non era stato ancora istituito il triennio superiore: Bufalino andò a Ragusa, mio padre a Siracusa dove viveva sua sorella Franca. Si ricongiunsero al terzo liceo classico a Comiso e poi, insieme, all’Università di Catania, ospiti della gloriosa Pensione Cacciola, godendo delle delizie gastronomiche della Locanda don Antonino, nei pressi di Sant’Agata, come la ttriaga ccu’ du’ sordi ‘i pani, e solo quando si poteva.
La narrazione di mio padre di Bufalino ragazzo non riportava affatto una figura introversa, solitaria, disadattata ma, al contrario, lo descriveva come un giovanotto attivo nello sport (Nunzio Digiacomo era un ottimo portiere ma, a suo dire, parare un rigore battuto da Dino era cosa impossibile se non pericolosa perché, insieme al pallone, arrivava una coda dragonara di sassi, polvere, fango, scatolame vario… potenza o imperizia? Mah…), attivo nelle pratiche con l’altro sesso (secondo modalità in tempi, ahi loro, castigatissimi), per non parlare della vivacità culturale con le comuni passioni per il cinema e la letteratura, a proposito della quale mio padre gli riconosceva il primato d’imbattibile sucanchiostru.
Con la guerra si erano separati, perdendo le tracce l’uno dell’altro. Entrambi avevano seguito il corso per allievi ufficiali ed erano sopravvissuti. Si erano rivisti a Comiso alla fine della guerra, ma Dino era rientrato parecchi mesi dopo mio padre e sulle ragioni di questo ritardo lui aveva dato spiegazioni sommarie ed evasive, poco convincenti. Nessuno del luogo, allora, sapeva né di Scandiano né del ricovero nel sanatorio palermitano: quindi aveva deciso di non parlarne neanche con mio padre, il suo migliore amico. Sennonché, quando nel ’47 i reduci dovettero sottoporsi a una visita medica per la verifica di danni alla salute occorsi in guerra (mio padre si era spezzato un braccio), mentre il medico compilava il suo referto, gli occhi gli erano caduti sulla pila dei fascicoli personali dei soldati e, casualmente, in cima c’era quello di Dino con quell’orribile stampiglio rosso.
Poi quarant’anni di ulteriore sodalizio. Trenta a scuola, la stessa scuola, gli stessi orari, lo stesso giorno libero, il giovedì: perché Bufalino non guidava, mio padre sì, e tutti presidi dell’Istituto Magistrale di Vittoria, negli anni, avevano dovuto cedere a quella piccola imposizione di far coincidere le attività di entrambi che, altrimenti, avrebbe costretto Dino a chiedere trasferimento a Comiso e forse lo avrebbe seguito anche mio padre (nel tempo, mi sono convinto che loro due si fossero riservati questi appuntamenti quotidiani: il prelievo la mattina, Dino che regolarmente batteva la testa nella cornice dello sportello, mio padre che sghignazzava, Dino che lo chiudeva con un insospettabile vigore da forzuto, mio padre che diventava una belva “Di’, ma che cazzo lo sbatti a fare così forte lo sportello?”: questo tutte le mattine, testimone il sottoscritto!).
Però della tubercolosi non avevano mai parlato, né mio padre gli aveva raccontato di quella dolorosa scoperta.
La cosa della quale si parlava spesso, invece, era il capolavoro nascosto nel cassetto di Dino, e non solo a casa mia. Quando lui veniva direttamente interpellato da qualche amico che mezzo sfottente gli chiedeva “Quanto ben di Dio c’è nei tuoi cassetti, Dino?” gli rispondeva “Un giorno o l’altro t’invito a far pulizia…”; ma se a chiederlo era mia madre, per esempio, che lui adorava, si stringeva nelle spalle e con un mezzo sorriso mormorava “Vanità”. Ma tutti, mio padre in testa, eravamo certi che qualcosa d’importante dovesse esserci davvero nei cassetti di Gesualdo, per forza, anche se mai avremmo pensato che potesse trattarsi di un romanzo che raccontava di quella terribile esperienza da noi rimossa. Almeno da noi.
Perché, a pensarci bene, quell’esperienza di strascichi nella vita di tutti i giorni di Bufalino ne aveva avuti. Intanto, salutismo assoluto: la riduzione a grado quasi zero di qualsivoglia elemento che potesse logorare la sua salute: niente caffè, niente alcol, nessuna debolezza per i piaceri della tavola, tranne una che non vi racconto. Rarissimamente una sigaretta, fino a una certa data: strano, ma è così. Poi la collezione di tutte le recensioni d’argomento sanitario, farmaceutico, salutistico allora pubblicate in una rubrica dedicata nel settimanale Tempo: quindi, era aggiornatissimo e sovente lasciava interdetto il suo medico di famiglia il quale, poveraccio, evidentemente ne sapeva meno di lui. Il destino è veramente diabolico: ho spesso pensato che, se non fosse stato per quell’incidente maledetto, Bufalino sarebbe stato un uomo molto longevo, come i suoi genitori: insomma ci avrebbe vurricato tutti, vah!
E quindi, ritornando alla tubercolosi e a Diceria, c’eravamo sbagliati, perché questo era stato l’argomento che aveva assorbito la sua attività creativa per trent’anni, più le poesie, qualche traduzione e Il guazzabuglio, tuttora inedito, che forse sta all’opera di Bufalino come bacino di spunti e idee per altri lavori, allo stesso modo del leggendario racconto mai pubblicato di Raymond Chandler dal quale l’autore de Il grande sonno pare attingesse per creare le storie e i personaggi dei suoi romanzi.
Quindi, scoprimmo che il manoscritto di Diceria dell’untore, nelle sue diverse elaborazioni, era stato per tanti anni uno splendido, luminescente, segreto contraltare allo scorrere di una quotidianità provinciale tutto sommato di una noia insopportabile, tranne, appunto, le chiacchierate con mio padre, con Filippo Garofalo, Dino Barone, Salvatore Fiume quando c’era, un giovane già bravissimo Nunzio Zago, io stesso giovanissimo e poco altro. Scoprimmo che Diceria, in tutti quegli anni, era stato il laboratorio nel quale si era affinato uno stile unico, sontuoso, potente, visionario, molto speciale, che, a pensarci bene, era quello che Dino usava quando discuteva di cose d’arte o quando - raramente ma accadeva - scriveva la presentazione d’un artista amico o la prefazione di un libro sulla sua città o di vecchie foto ritrovate.
Diceria dell’untore è stata la sua Bestia nella giungla: “Qualcosa lo attendeva, alle curve e agli incroci lungo il cammino dei mesi e degli anni, come una bestia feroce in agguato nella giungla. Poco significava che la bestia in agguato fosse destinata a sbranarlo o ad essere abbattuta. Il punto era che sarebbe inevitabilmente balzata fuori…” Henry James non si era sbagliato.
Giuseppe Digiacomo