di Domenico Cacopardo
Marco Marino Asterione mi ha invitato a indagare le ragioni del mio legame con il premio Nobel per la letteratura Salvatore Quasimodo.
Sarebbe bello e, forse, gratificante ricorrere a sofisticati motivi tutti cerebrali su un rapporto che, nel tempo, è diventato pressocché morboso, così morboso che sulle varie scrivanie, utilizzate in 39 anni di incarichi in uffici governativi, era sempre presente il mio personale Meridiano di Quasimodo. Non un vezzo, ma un fisico bisogno di avere lì, pronta, la mia Bibbia personale, quella che un uomo come me, ateo e liberal, poteva consultare senza ritrovarsi nei luoghi comuni o nelle fantasie tipiche di tutte le bibbie sacre e profane. E, spesso, aprivo quel Meridiano, cercando, tra i tanti, i versi più vicini alle mie inquietudini.
La ragione di tutto ciò, però, è elementare. Mio nonno era in ferrovia e fu chiamato a Messina da Caltanissetta per rimetterne in piedi l’organizzazione subito dopo il terremoto del 28 dicembre 1908. Il padre di Salvatore Quasimodo era capo-stazione ed era fatale che i due si conoscessero e simpatizzassero. In pochi mesi, le due famiglie si ritrovarono vicine, alloggiate nelle case dei ferrovieri, le «baracche» realizzate in prossimità di via Taormina a Messina. E che mio padre e Salvatore Quasimodo si ritrovassero nei banchi di scuola del Fisico-Matematico, sistemato provvisoriamente in via La Farina, sebbene in sezioni diverse. Mio padre era del 1899, Quasimodo del 1901. In classe con lui mio zio Basilio, anch’egli del 1901. Comunque, c’era dimestichezza e amicizia, l’amicizia contegnosa e riservata legata al ruolo di mio nonno che, intanto, era diventato capo del personale viaggiante. Un altro segno di vicinanza che il destino aveva donato ai Quasimodo e ai Cacopardo poteva essere rinvenuto nella circostanza che il futuro poeta era entrato nel Genio civile, ufficio di Reggio Calabria, e mio padre che, essendo del ’99, aveva fatto la guerra, dopo la laurea in ingegneria, era stato assunto anche lui dal Genio civile, ma nell’ufficio di Catania. Mi dissero i miei congiunti che per un certo periodo, non lungo, i 2 giovani - pendolari l’uno da Reggio Calabria, l’altro da Catania - ogni tanto, ma sempre più di rado, si incrociassero, scambiandosi commenti e valutazioni sull’ente per il quale entrambi lavoravano.
Le strade si divisero, Quasimodo sposò la reggina Bice Donetti e, cedendo alle insistenze del marito di sua sorella, Elio Vittorini, si trasferì a Firenze. Ma le relazioni non si persero. Raggiunta l’età della ragione -o quasi-, all’inizio degli anni ’50, nella casa di Messina di zio Basilio, accadde che, essendoci sistemati in terrazza per cercare un po’ di refrigerio dallo scirocco, lo zio sedesse con me e mio cugino Nicola con un libro in mano. Era Acque e terre, edizioni Solaria. C’era una dedica, proprio a lui.
Ci lesse qualche verso -che non capimmo- e ci spiegò che si trattava di un grande poeta, modernissimo, le cui composizioni erano difficili da interpretare.
«Impossibile», aggiunse.
Qualche tempo dopo, ne parlai con mio padre che mi mostrò la sua copia con dedica ma non confermò il giudizio espresso da Basilio.
Incuriosito, iniziai a sfogliare il libro, che era ancora intonso (a quei tempi, per ‘sfogliare’ un libro occorreva un taglia carte o un coltello: era un rito, una presa di possesso - una deflorazione -, che doveva essere celebrato con attenzione perché poteva accadere di strappare qualche pagina. Per non venire meno alla rispettabilità pretesa a quei tempi, risultava molto disdicevole danneggiare un volume) e ad appassionarmi alle poesie di Quasimodo. Fulminante l’esordio:
«Ed è subito sera
Ognuno sta solo sul cuor della terra
Trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.»
Insomma, credo che le prime letture di Acque e terre abbiano influito in modo determinante, nella scelta del Sublime dell’Anonimo come libro da “portare” alla licenza liceale. Una scelta che stupì i componenti della commissione d’esame e che riuscii a onorare in modo sufficiente. In quell’anno, tra la seconda liceo e la terza, avvicinai Jean Paul Sartre leggendo - purtroppo in italiano - la sua Trilogia della libertà, costituita da tre romanzi, L’età della ragione (L'âge de raison), Il rinvio (Le sursis), La morte nell’anima (La mort dans l’ame).
Sartre mi guidò all’ateismo, mi convinse della sua affermazione che Dio è un dio assente, un’assenza che ho sempre ritrovato nella poetica di Quasimodo («Dammi il mio giorno;/ ch’io mi cerchi ancora/ un volto d’anni sopito/ che un cavo d’acque/ riporti in trasparenza,/ e ch’io pianga amore di me stesso./ Ti cammino sul cuore,/ ed è un trovarsi d’astri/ in arcipelaghi insonni,/ notte, fraterni a me/ fossile emerso da uno stanco flutto/; un incurvarsi d’orbite segrete/ dove siamo fitti/ coi macigni e l’erbe.» in Ed è subito sera), mentre dallo stesso Quasimodo trassi la decisione di dedicarmi a un altro autore: Elio Vittorini. Uomini e no, insieme a Conversazione in Sicilia, appartengono alla mia personale formazione, al gusto per l’essenziale, per il rifiuto delle ridondanze che nella letteratura siciliana hanno spesso avuto un ruolo importante. Fu un periodo della mia vita, quello, nel quale avevo scelto la militanza nel Pci, l’impegno culturale nell’approfondimento della filosofia della prassi e, naturalmente, di Gramsci, anche se, in politica, la bussola di quegli anni erano gli editoriali di Palmiro Togliatti. E a proposito degli anni ’50, risultava normale per un sedicenne impegnarsi, con altri, in dibattiti pubblici su temi appassionanti come «Il liberalismo penultima frontiera del capitalismo» (con l’ovvio sottinteso che il fascismo ne era l’ultima), «Estetica e cultura marxista», con l’assunto necessario che l’arte non potesse che esprimere l’ideologia del riscatto del proletariato (maestro indiscusso György Lukács), o, infine, «Il socialismo reale passaggio obbligato per la realizzazione del comunismo». Ed era altrettanto normale che queste discussioni fossero molto partecipate, tanto che l’aula del liceo che ci era concessa traboccava sempre di gente che, alla fine, non vi trovava posto ed era costretta ad andarsene, visto che non avevamo un impianto di diffusione e, fuori dall’aula, non si sentiva nulla.
C’era, in Quasimodo e Vittorini, un altro elemento ontologico che mi appartenne e mi appartiene: il senso di giustizia. E, per quanto mi riguarda, a esso si accompagna - in forma ora mitigata - una sicilianità riservata, volta al togliere parole ai pensieri, a rendere l’eloquio secco e appropriato senza scivolamenti sentimentali. Non a caso, intitolai una mia raccolta di versi giovanili L’implicito sublime. Naturalmente, non potei amare Proust e la Recherche - che tuttavia, diligentemente, lessi tutta, annotando in margine a ogni pagina le mie caduche impressioni - non potei amare Tomasi di Lampedusa, Bufalino né Camilleri (anche per altre evidenti ragioni). E fui molto diffidente nei confronti di Pirandello.
Amai Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia, entrambi esponenti della mentalità loica e laica cui mi ero ispirato.
Quasimodo mi è presente come e per il sentimento che mi lega alla mia terra. Anche se mia madre - e suo fratello, comandante della Brigata Garibaldi di Piacenza - mi ha trasmesso una emilianità sanguigna - che mi spinge a quelle battaglie di principio, dalle quali esco sistematicamente sconfitto, ma (lo spero) moralmente vincitore-, sento di essere un siciliano senza sicilianità né, peggio, sicilianismo, pronto all’ironia nei confronti di nostrani vezzi e abitudini. Riporto qui, ora, una delle poesie (di Quasimodo) che mi colpirono allora e che riuscii a ritagliare da una vecchia copia dell’Unità trovata tra le carte di un compagno della Federazione di Viterbo che s’era trasferito a Roma, lasciandole sulla mensola di una libreria. È del 1949: «Il mio cuore è ormai su queste praterie,/ in queste acque annuvolate dalle nebbie./ Ho dimenticato il mare, la grave/ conchiglia soffiata dai pastori siciliani, /le cantilene dei carri lungo le strade/ dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,/ ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru/ nell’aria dei verdi altipiani/ per le terre e i fiumi della Lombardia./ Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria./ Più nessuno mi porterà nel Sud».
Un testo, questo, che gli valse una reprimenda da parte di un celebrato esponente del clericalismo italiano («clericalismo», un termine che abbiamo dimenticato, tanto da non accorgerci del suo tossico serpeggiare, una automatica e immeritata attribuzione di «moralità» per i suoi protagonisti), don Primo Mazzolari.
Il sentimento di nostalgia e di amore per la sua Sicilia - che è anche la mia, una Sicilia ionica che annovera tra i suoi più spiccati esponenti uno scrittore come Stefano D’Arrigo, il cui Horcynus Orca è sotto tutti i profili uno dei pochi capolavori della letteratura contemporanea, ignoto ai più proprio per la ricerca filologica che lo portò a scriverlo nella lingua dello Stretto - diventa, in questa età avanzata una sorta di proiezione di ciò che penso e sento della mia terra. Terra amara. Amara per la condanna decretatami da parte di una comunità che ritengo ancora la mia votata alla difesa delle peggiori scelte, quelle dell’urbanizzazione selvaggia e abusiva, del travolgimento dell’ambiente e della strisciante infiltrazione criminale.
Torniamo a Quasimodo. Scrisse Pier Paolo Pasolini (per ragioni molto terrene: un sostegno a una sua candidatura), prendendo implicitamente le distanze da Eugenio Montale: «Ho una voglia immensa di leggermi tutto Quasimodo, il cui tono mi sembra più valido e duraturo della nostra poesia contemporanea per la sua maggior misura classica».
Più che un epitaffio, un viatico. Almeno per me che non ho abbandonato Salvatore, come non ho abbandonato Vincenzo Consolo.
(questi i versi scritti dopo una mia visita a lui e a Caterina, nella loro casa di Corso Plebisciti di Milano: «Dondolo sulla sedia del tramonto/bisogna – proprio bisogna?-/ sostenersi il capo/finché ogni sillaba formi/frasi sensate/ oscure e non/ e membra muovano/ a fatica/ verso ignote vanelle/ di paese./S’attarda rugoso il dito//e foglio ocra coglie/ insicura la penna,/riga e riga ancora,/nonsapienza dello scrivere/sapienza del nonscrivere./ Fichi d’India rifioriti/ sulla bionda calcarenite/ di Tafalia/ ritti sostengono/ pur’essi son figli di Sicilia/il capo né umiliati o vili./ Un giorno atteso, disperato forse./ Una sala tra libri e quadri/ e semplice scrittoio/ di noce a cera,/ la tazza del caffè/ nella mano piccola minuta ferma./ Lì c’è Vincenzo solido/ e dolce:/ Mandralisca infanzia/ gioventù e amore di siciliani/ verbi/ di specchi trapassati/ immagini caduche/ schermi di sentimenti/ forti./ Di qua dal Faro/ Pantalica / e lo Spasimo/ coraggio e atterrimento,/ sensi d’anima inquieta/ Nebrodi Peloritani/ terra ballerina/ barbara imbarbarita e stolida/ la noncittà Messina,/ scavando trovi/ greci i nomi e fenici/ saraceni e normanni/ e mura antiche./ Colapesce regge l’isola/ della disgrazia amara,/ dei pianti e dei tabuti/ teatri e chiese sin troppo ornate/ preti famelici/ e mafie di mattoni,/ remote le purezze/ e l’acque cristalline/ e prossimi eroismi./ E mentre parli tu, Vincenzo,/ sottile l’emozione/ gela/ il pensiero/ il viso tratto al nonreale, all’opaco,/ al divagante senso d’essere qui,/ con te, senza un sospiro./ Poi esco e mi consolo/ Consolo Vincenzo/ ci sarà una volta/ ancora/ un altro libro onesto/ e in tempi bui/ -barbari nelle vie/ barbari/ nel palazzo-/ l’opposto tuo permane:/ ritta la schiena e illesa/ come quel fico d’India/ rifiorito sulla calcarenite/ di Tafalia/ e l’innocenza/ lucida la penna/ e fede,/ sì, proprio fede, / nel dio dei nostri anziani/ giorni,/ rapida la saetta d’una parola,/ un pensiero, una storia./ Per non dimenticare/ e, sapendo, restare, / come sempre,/ puro»).
Tuttavia, debbo ammettere che, con il passare degli anni, soprattutto con il crescere dell’impegno giudiziario, mi sono visto costretto ad abbandonare la via dell’implicito per scendere nel campo, ben difficile e rischioso, dell’esplicito (quello su cui mi ha voluto condurre, oggi, Marco Marino Asterione). È impossibile in una decisione (cioè una sentenza) non esprimere e analizzare le ragioni delle parti e, quindi, trarre orientamenti discriminanti il torto e la ragione. E poi, lo scendere nella narrativa, nella quale, dopo i miei primi romanzi tratti dal mio un tempo imponente archivio di scritture e, quindi, obbedienti al principio che l’implicito è sublime - come Il caso Chillè e L’endiadi del dottor Agrò proprio per l’evidente tecnica di “tagliare” riducendo le storie a essenzialità almeno fattuale in modo da lasciare ai lettori gli aspetti psicologici e interiori dei personaggi -, sono dovuto, per scelta consapevole, passare a un esplicitazione maggiore, tale da rendere evidenti le ragioni dei comportamenti e la natura dei personaggi. Una scelta, come ho detto, rischiosa, dei cui risultati non posso essere giudice. Solo parte in causa e, come tale, pronto a difendere le ragioni di un metodo che non era mio e che lo diventò col passare degli anni.
Un tradimento della tradizione che mi legava e mi lega a Quasimodo? Niente affatto. Solo un mutamento dell’approccio alla parola e alla narrazione romanzesca.
Non dubito del fatto che Salvatore Quasimodo è presenza costante nel mio perimetro intellettuale e morale. Una presenza che mi aiuterà a non accantonare la distinzione imperitura tra Uomini e no, il libro, ispirato dai fatti di Piazzale Loreto a Milano, cioè dall’eccidio nazifascista - della Legione autonoma mobile Ettore Muti (Rsi) - consumatasi il 10 agosto 1944, vittime 15 partigiani, i cui cadaveri furono esposti al pubblico.
Oggi come ieri, le parole sono pietre e, consapevole che non c’è mediazione tra legalità e illegalità, onorando colui che sceglie la giustizia senza se e senza ma, non me ne priverò.