di Gianfranco Perriera
Radiogeneration, già settant’anni addietro, venne definita dalla sociologia la nuova umanità in corso di formazione “E’ il tipo d’uomo – chiosava Adorno – la cui essenza è definita dall’incapacità di compiere esperienze personali, un uomo che si lascia imbandire le esperienze dall’apparato sociale, fattosi strapotente e impenetrabile”. Con il tempo questo uomo sempre più frammentato e nevrotico, dagli stessi media sarebbe stato adescato e fagocitato: sempre più proteso a postare frasi e immagini, invocando riconoscimento e gratificazioni da un lato, dannandosi, dall’altro, nel livore e nel risentimento per la felicità che gli viene negata e gli stenti in cui si vede precipitato. Intanto da soggetto che dovrebbe decodificare e analizzare il messaggio si trasforma in analizzato, prima, e in bersaglio, dopo, del messaggio pubblicitario. Il progresso tecnologico, aveva avvertito Adorno, avrebbe reso gli umani più brutali e insieme sempre più obbligati ad adeguarsi agli oggetti. Preda della vergogna prometeica, aveva aggiunto Anders, sarebbero divenuti gli umani: “Un io che non è niente altro che una non-macchina”, condannato all’imbarazzato disagio di riconoscersi inferiore alla macchina stessa.
Ray Bradbury dichiarò di aver avuto l’idea di scrivere Fahrenheit 451 dopo aver visto una coppia percorrere, mano nella mano, una strada di Los Angeles, entrambi, con una radiolina alle orecchie. Radiogeneration, appunto. Una tale immagine gli suggerì un futuro distopico, in cui le nuove generazioni sarebbero state private dei libri - della complessità della scrittura - sacrificati a una felicità imposta dall’alto che avrebbe ripudiato qualsiasi critica e qualsiasi dubbio. Un’umanità apatica, deprivata del senso di responsabilità perché eterodiretta era lo scopo del sistema: perciò la milizia del fuoco era preposta a bruciare i libri e le case che avessero osato nasconderli, sì da impedire ogni ipotesi di risveglio intellettuale ed emotivo. Pensare, accogliere la complessità del pensiero era proibito. “L’infinità del pensiero è un marcatore cruciale – ha scritto George Steiner – forse il marcatore dell’eminenza umana”. Lo è nel dare gioia e slancio – perché consente all’uomo il dominio della natura e le ipotesi di una società sempre più giusta e gentile – ma lo è anche nel consegnare alla tristezza e alla delusione – perché sempre inconcluso è il pensare, mai si dà pace, e mai conosce “la sua estensione rispetto alla totalità del reale”; perché argomenta sempre di uno iato fra il mondo vero e quello apparente, fra il mondo che è e quello che dovrebbe essere, senza mai trovare il punto dirimente. Bruciare i libri – dove i pensieri si conservano in segni grafici e attendono di essere ri-pensati – è consegnare gli umani all’automatismo, alla decadenza dell’eterodirezione prima e alla ferocia dell’homo homini lupus, poi.
La storia abbonda di episodi in cui i libri sono stati messi al rogo. Libri e umani, in effetti. Heine poteva concluderne che là dove si brucia un libro si finisce per bruciare anche gli uomini. Accatastare libri e darli alle fiamme è pratica di lunga data. Ce lo ricorda Leo Lowenthal, sociologo e filosofo della Scuola di Francofote, che del rogo nazista del ’33 fu testimone e che nella distruzione delle biblioteche ebraiche nel 168 individuava il rogo capostipite, almeno in occidente. Di Lowenthal la Treccani ha ripubblicato nel 2019 I roghi dei libri, acutissimo libretto che in poche pagine ripercorre il rituale simbolico con cui si riduce in cenere, con ardire purificatorio, la cultura. Tre sono per l’autore, le motivazioni che sostengono un tale meccanismo: “1 Eliminazione della storia; 2 Distruzione nel presente dei portatori di malattie ed epidemie nemiche del sistema; 3 Liquidazione del soggetto”. Smaltire dalle fondamenta il passato corrisponde alla volontà fanatica di “dar vita a una sorta di nuova Storia della creazione”. Ovviamente, in questo modo, si cancella anche tutto quel che potrebbe offuscare, smentire e sbugiardare le (s)ragioni di chi detiene il potere. L’eliminazione del passato è, in effetti, come Lowenthal sottolinea, il dichiarato motivo portante del discorso di Joseph Goebbels durante il rogo dei libri a Berlino nel 1933. I libri vengono assimilati alla peste, una sorta di tabe che corrompe la volontà dura e unidirezionata, pertanto necessario risulta il fuoco purificatore. Un fuoco che fa piazza pulita del passato, che stermina virus appestatori. Non a caso Goebbels, sempre lui, poteva definire gli intellettuali “cricca di parassiti”. Sulla cenere di infinite parole, di infiniti pensieri, sorge pertanto una civiltà che rivendica per sé la tracotanza di un’energia originaria e barbarica, ma il cui reale scopo è cancellare l’autonomia dell’individuo. Proprio all’inizio del saggio, Lowenthal cita il Calibano de La Tempesta di Shakespeare. Costui si propone non soltanto di uccidere Propero, che con i suoi incantamenti l’ha reso suo servo, non soltanto di violentarne la figlia, ma anche di bruciarne, per intero, la biblioteca. Trasforma così, commenta Lowenthal, lo spazio storico in natura brutale. Il soggetto, destituito della ragione e dell’autonomia del pensiero, ripiomba nell’istintualità della ferinità: pecora se deve obbedire agli ordini del sistema, lupo se deve attaccarne i nemici. “E’ proprio della dittatura – conclude l’autore – non tollerare l’individualità, manifestare una idiosincrasia per il soggetto critico”.
Nella notte di Valpurga, dal calderone in cui bruciano i libri, viene fuori il distillato alchemico che sa assai più di nigredo che di albedo: una civiltà che trasuda violenza e dimenticanza – che nel caso del nazismo sterminerà sei milioni di ebrei, devasterà l’Europa, trasformerà i suoi stessi cittadini in feroci criminali per poi abbandonarli a un massacro privo di speranza – che dichiara guerra all’individuo e provoca “la caduta di una storia piena di significato al nulla, al caos”.
Di una simile efferatezza l’occidente da quasi ottant’anni non è più testimone. Almeno per quanto riguarda i libri (per quanto riguarda gli umani, basta pensare alla violenza che continuano a subire le donne e gli immigrati per rinunciare a qualsiasi entusiasmo a proposito del progresso civile). Di roghi di volumi stampati non si dà notizia. Ma forse perché nel processo di de-soggettivazione – con esiti invero rancorosi – la contemporaneità è andata assai più in là senza bisogno di dittature, anzi favorendo – o fingendo di favorire – il più disinvolto ed egoistico trionfo delle pulsioni elementari? Quest’epoca – suggerisce Giuseppe Montesano nella bella introduzione alle pagine di Lowenthal – dichiara che “la cultura critica non serve a niente per avere o fare un lavoro”. Quest’epoca, mentre allarga a dismisura il numero degli analfabeti funzionali, ha dichiarato guerra alla lettura profonda, dalla essa vuole purificarci, “quel genere di lettura che fa scontrare il sistema neuronale con difficoltà che lo fanno evolvere, e non la lettura superficiale che attiva soltanto una parte trascurabile del sistema neuronale”.
Nabokov a proposito delle Metamorfosi di Kafka, chiarì che l’insetto in cui Gregor si era trasformato era in realtà uno scarabeo sacro e che, soprattutto, in quanto tal genere di coleottero, sotto il carapace aveva le ali. Se Gregor le avesse scovate, avrebbe potuto volare. In quest’epoca grigia, nevrotica e confusa, in questi tempi di letture superficiali e di visioni multicolori che non richiedono riflessione, il breve ma profondo saggio di Lowenthal e la densa introduzione di Montesano, possono aiutarci a ridare un po’ d forza d’ali al nostro spirito, prima che il carapace lo avvolga come una scura notte che taglia il respiro.