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11/12/2020 06:00:00

Circoli viziosi. Contro le classifiche dei libri più venduti

di Marcello Benfante

E poi tornai a Milano, e scrissi un altro libretto – lo scrissi in modo scolastico, didattico – l’ironia non si vedeva; e questo, non essendovi arte, fu letto.
Anna Maria Ortese, "Corpo celeste"

Avvertenza. Forse lo stato attuale dell’arte e delle cose ci impone ormai di osare una piccola, ma in realtà enorme, polemica. Si tratta di un paradosso, più o meno satirico, che però si risolve in un truismo abbastanza banale, in un dato di fatto che appartiene alla realtà.

Ecco di che si tratta.

Una delle più subdole e perfide insidie contemporanee alla cultura, per non dire alla civiltà stessa, sono le micidiali ed esecrabili classifiche dei libri più venduti, i famigerati best-seller, che quasi tutti i quotidiani e perfino molte paludate testate specialistiche pubblicano sistematicamente e con esiti sistematicamente disastrosi per la letteratura.

E non solo, purtroppo, per la letteratura.

Come i sondaggi di opinione sul consenso dei partiti o dei loro leader, e altrettanto perniciosamente, le classifiche dei libri più venduti provocano contagiosi fenomeni imitativi e di aggregazione passiva.

Sono cioè una forma di brutale volgarizzazione (i libri - ossia la cultura, l’arte, la scienza - impilati in fila, in ordine di punteggio, come le squadre di un campionato di calcio o come l’ordine di arrivo di una corsa ciclistica) e al tempo stesso un agente di diffusione massiva di un gusto e di un pensiero omologato e omologante.

La contaminazione sembra infatti propagarsi a partire dal focolaio infettante di queste supponenti graduatorie e diffondersi sempre più ampiamente attraverso tutti i più consueti luoghi pubblici: gli autobus e le metropolitane, i cinema e i teatri, le piazze e le stazioni, i mercati e i bar, i crocicchi e i tabaccai, le edicole e (raramente e in minima parte) le librerie. Insomma, ovunque la gente s’incroci, si scambi una battuta, una frasetta di circostanza, anonima e anodina, insulsa perfino.

Come una vera epidemia, insomma. Dalla quale sembra per certi aspetti più difficile difendersi che dal temibile coronavirus (anche perché lavarsi le mani è un’operazione più semplice che depurare i propri pensieri dalle incrostazioni più banali, come anche indossare una mascherina è una misura precauzionale meno problematica che indossare un bavaglio per zittirci). Una pestilenza, dunque, e senza quasi un dottor Rieux che ci illumini e tuteli. O meglio, un’invasione di cavallette che divorano ogni più piccola forma di vita e lasciano il territorio desertificato.

Il meccanismo psicologico che induce il lettore (spesso un non-lettore) di tali classifiche ad acquistare il libro che vi svetti per numero di copie vendute, andrebbe studiato come un caso esemplare di eterodirezione e di persuasione occulta (tanto più occulta in quanto apparentemente neutra nella sua evidente attestazione di un dato oggettivo e quantitativo).

Ci vorrebbe un redivivo Vance Packard a valutarne scientificamente gli effetti. Noi qui possiamo solo limitarci ad abbozzare qualche vago appunto.

L’equivalenza sottintesa in questi consuntivi commerciali è che il campione di vendite sia anche il libro più interessante o perfino più bello. Il che sovente non è, per ovvie ragioni. Spesso capita, anzi, di trovare all’apice della classifica il libro più brutto o almeno quello più banale. Ed è fatale che questo disguido capiti sempre più spesso, che ciò diventi norma o consuetudine, dal momento che l’editore e l’autore si conformano nel loro agire a un modello vincente di libro, fatto apposta, prefabbricato e preordinato, per primeggiare in simili graduatorie.

Del libro più interessante per molti lettori (e talora per quasi tutti) è quindi doveroso interessarsi a propria volta. Ed è, a corollario di questo teorema, vergognoso non esserne in possesso, non conoscerlo, non saperne parlare in certe occasioni sociali, in pubblico per così dire. Il che, tuttavia, non implica necessariamente il leggerlo.
Il meccanismo è quello tipico del messaggio pubblicitario: più un prodotto è venduto, più ha successo, e più risulta credibile e appetibile agli occhi delle masse.

Credibile e appetibile proprio in quanto largamente acquistato (e non viceversa, come sarebbe auspicabile). Il che, in ultima analisi, è l’ennesima attestazione del potere del denaro o, se vogliamo dirlo in altri termini, del fascino irresistibile del successo economico.

Mettiamo, in via di ipotesi, che di un certo autore, di un certo tema, di un certo tipo di libro, non ci siamo mai occupati (del tutto o almeno particolarmente). Che, insomma, essi non abbiano mai suscitato in noi un qualche interesse specifico o rilevante. Mettiamo ora che quell’autore, trattando simili argomenti nelle pagine di quel certo tipo di libro, ottenga un tale successo da scalare (d’improvviso o con progressiva e inarrestabile ascesa) la classifica dei libri più venduti.

Succederà allora che quell’autore e quel suo libro che affronta quel certo argomento, che prima ci sembravano insignificanti se non noiosi o addirittura respingenti, ci appaiano d’improvviso sotto una nuova luce, seducenti, invitanti, attraenti.

D’altronde, non di rado il campione di vendite è promosso (nel senso commerciale dell’espressione) a Maestro.

E perché mai? Perché così ha decretato il Mercato. Che è un garante più che attendibile del gusto medio. Non tanto, beninteso, del gusto letterario (cosa che implicherebbe almeno l’identità tra acquirente e lettore). Bensì del gusto, per così dire, sociale, che si fonda su un gradimento complessivo, d’immagine, di status.

È il trionfo del quantitativo computabile sul qualitativo opinabile. D’altronde, se un libro può vantare solo venticinque lettori, che valore possiamo dargli?

Sarebbero più eque, ancorché soggettive e utopiche, delle classifiche di merito, qualitative, in cui un critico, un intellettuale, un libraio, un bibliotecario, un insegnante, uno studente, un lettore “forte”, dessero spassionatamente un parere e un consiglio, per quanto arbitrari e relativi, ma sinceri e in varia misura competenti.

Ma anche questo, temo, sarebbe inutile, perché alla fine tutto, l’insieme delle preferenze discrezionali, delle predilezioni personali, degli entusiasmi e degli innamoramenti, delle curiosità e delle spontanee attrazioni, verrebbe ricondotto al dominio del calcolabile, ridotto a percentuale di un gradimento astratto e insieme concretissimo, esprimibile in valori monetari.

Più o meno come i sondaggi di opinione, insomma. E in modo altrettanto mistificante.