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09/01/2021 06:00:00

Sciascia 2021. Come Chagall. Sciascia e la poetica del paesaggio

di Lavinia Spalanca

A partire dall’esordio lirico con La Sicilia, il suo cuore (1952), sino al suo romanzo testamento Il cavaliere e la morte (1988), l’opera di Sciascia è percorsa da un ininterrotto dialogo con l’universo figurativo. L’esplicito rimando al pittore russo Chagall, convocato ad apertura della sua silloge in versi – «Come Chagall vorrei cogliere questa terra / dentro l’immobile occhio del bue» – risulta infatti cruciale per comprendere la cifra stilistico-ideologica delle poesie e, insieme, dell’intera poetica sciasciana. Analogamente all’artista, approdato da un realismo analitico di matrice cubista ad un realismo simbolico-onirico fondato sulla circolarità della visione, Sciascia esperisce il passaggio – negli anni ’50 dell’esordio letterario – da una visione documentaristica di matrice neorealista all’interpretazione simbolica dei dati della realtà, fondata sull’unità della per-cezione. Se in Chagall la circolarità della visione – che si slarga in un intrico di cerchi concentrici, come nel dipinto del 1911 Io e il villaggio – è restituita dal particolare dell’occhio, nella poesia di Sciascia «l’immobile occhio del bue» è il perno di un’espansione in senso circolare. E non casualmente il termine «occhio» è presente, con ben nove occorrenze, all’interno delle ventiquattro liriche della silloge, dall’«occhio melmoso delle fonti» della lirica incipitaria agli «occhi vivi» della poesia I morti e del “foglietto di diario” Siena, sino agli «occhi limpidi» di S. Gimignano, solo per fare qualche esempio.

L’ossessione oculare – altresì richiamata dai lessemi, afferenti allo stesso campo semantico, «pupilla», «iride», «volto» – è spia dell’insorgere precoce, nello Sciascia lirico, di un’attitudine all’osservazione lucida della miseria e desolazione della sua terra, che dischiude all’occhio attento dell’artista il suo cuore arido e desertico. Alla maniera di Chagall, che attraverso un semplice dettaglio figurativo – secondo un gusto non immune dal fascino delle antiche icone – rifletteva l’immagine della Russia favolistica della sua infanzia, così Sciascia ci consegna la sua immagine realistica e simbolica, particolare e universale al contempo, della sua Sicilia:

Come Chagall, vorrei cogliere questa terra / dentro l’immobile occhio del bue. / Non un lento carosello di immagini, / una raggiera di nostalgie: soltanto / queste nuvole accagliate, / i corvi che discendono lenti; / e le stoppie bruciate, i radi alberi, / che s’incidono come filigrane. / Un miope specchio di pena, un greve destino / di piogge: tanto lontana è l’estate / che qui distese la sua calda nudità / squamosa di luce – e tanto diverso / l’annuncio dell’autunno, / senza le voci della vendemmia. / Il silenzio è vorace sulle cose. / S’incrina, se il flauto di canna / tenta vena di suono: e una fonda paura dirama. / Gli antichi a questa luce non risero, / strozzata dalle nuvole, che geme / sui prati stenti, sui greti aspri, / nell’occhio melmoso delle fonti; / le ninfe inseguite / non si na-scosero agli dèi; gli alberi / non nutrirono frutti agli eroi. / Qui la Sicilia ascolta la sua vita.

Lo sguardo dell’artista non ci restituisce un montaggio sistematico di fotogrammi del paesaggio isolano («un lento carosello di immagini, / una raggiera di nostalgie»), bensì un insieme asistematico di particolari. Il movimento dello sguardo procede, infatti, secondo un’alternanza di piani alto / basso, salita / discesa: se «i corvi che discendono lenti» fanno sì che l’inquadratura si restringa circolarmente verso il basso, sulle stoppie bruciate del paesaggio desolato, l’immagine dell’estate «che qui distese la sua calda nudità / squamosa di luce» genera un moto circolare di risalita; all’immagine, nuovamente discendente, della luce «che geme / sui prati stenti, sui greti aspri, / nell’occhio melmoso delle fonti» si oppone l’immagine ascendente degli alberi che «non nutrirono frutti agli eroi».

Il tema dello sguardo, peculiare di questa dichiarazione di poetica, è destinato a percorrere numerosi altri scritti sciasciani, come il memorabile articolo del ’73 sul pittore surrealista Fabrizio Clerici – intitolato Clerici e l’occhio di Redon – o sul pittore caraveggesco Pietro d’Asaro, alias il «monocolo di Racalmuto» (1984). Un’ossessione oculare spia della sua attitudine, estetico-etica, alla contemplazione partecipe della realtà. A cominciare, ovviamente, dal microcosmo isolano, osservatorio privilegiato in cui meditare sulle dolorose leggi che regolano l’esistenza. Ma a restituirci l’immagine dell’isola non è soltanto la giovanile silloge in versi. L’istanza memorialistica si fonde allo studio del folklore in Kermesse (1982), la raccolta di antichi proverbi locali che intreccia ricerca antropologica e rêverie. Non è forse casuale, allora, che il libretto sciasciano rechi in copertina un particolare dalla litografia chagalliana Dafni e Cloe, come non è casuale, anche qui, l’insistenza sul tema dello sguardo (Occhio di capra s’intitolerà infatti la versione ampliata del libro, 1984). Tornando a Chagall, non può sfuggire nei suoi dipinti uno spiccato gusto della teatralità, spia di un sentimento barocco della rappresentazione – quasi facesse muovere i suoi personaggi su un’immaginaria ribalta. Un analogo sentimento barocco intride i malinconici versi sciasciani, trovando un corrispettivo visuale nel gusto del contrasto cromatico (bianco/nero, luce/ombra), dall’evidente portato simbolico (metamorfosi/stasi, vita/morte). Si prenda la lirica Ad un paese lasciato:

Mi è riposo il ricordo dei tuoi giorni grigi, / delle tue vecchie case che strozzano strade, / della piazza grande piena di silenziosi uomini neri. / Tra questi uomini ho appreso grevi leggende / di terra e di zolfo, oscure storie squarciate / dalla tragica luce bianca dell’acetilene. // E l’acetilene della luna nelle tue notti calme, / nella piazza le chiese ingramagliate d’ombra; / e cupo il passo degli zolfatari, come se le strade / coprissero cavi sepolcri, profondi luoghi di morte.

Anche nei “foglietti di diario” il trattamento simbolico della realtà s’invera nell’uso incisorio di luci ed ombre: Roma. La chiesa di Sant’Ignazio / intrisa d’ombre, la luna / che schiude lenta un ventaglio di luce / sui burrò: e goldoniani sussurri / ricamano il silenzio della notte. Ben nota è la passione sciasciana per la gravure, ma è qui significativo come il Nostro, nel suo giovanile esperimento in versi, interiorizzi la tecnica portante – l’uso sapiente del bianco e del nero – di quest’arte a lungo frequentata negli anni, disordinatamente collezionando fra Italia e Francia. A ribadire l’iconicità del libretto è un ulteriore “foglietto”, frutto di una divagazione senese dell’autore:

San Gimignano. In Sant’Agostino / un prete gobbo chiede del mio paese, / mi racconta dei comunisti di Toscana. / Dietro l’altare, Benozzo apre vivida / la favola del Santo. Tremante / la mano del prete scende dagli affreschi alti, / si ferma impaziente a un volto quieto, / gli occhi limpidi – Benozzo Gòzzoli, mi dice. / Ora attende l’offerta.

Il riferimento è alle Storie di Sant’Agostino, affrescate fra il 1464 e il ’65, a San Gimignano, dall’artista fiorentino Benozzo Gozzoli. Quest’ultimo, dopo aver narrato con vivezza di colori la vita del Santo – e di narrazione è lecito parlare anche in virtù dei cartigli che illustrano ciascun episodio – ci consegna un suo potenziale autoritratto, atto a siglare l’opera. Ma l’attenzione scia-sciana, oltre che sulla rappresentazione di sé, si concentra soprattutto sul gesto impaziente del frate che «attende l’offerta». Quasi un’aurorale intuizione di quella mercificazione dell’arte – un’arte, cioè, investita di un valore eminentemente economico – declinata con ben altri esiti nel Cavaliere e la morte, il suo romanzo dalla più spiccata vocazione peritestuale. Significativo, infine, è l’omaggio poetico A Joan Mirò, per il suo ottantacinquesimo compleanno, poesia inedita scritta da Sciascia nel 1978. A partire da una suggestione nominale – ossia l’origine catalana del cognome materno (Martorell) – Sciascia rende onore al pittore spagnolo, lasciando che «sotto le palpebre / scorrano e germinino memoria / i segni ed i colori» della sua terra, inondata dalle luci del Mediterraneo.

L'articolo è un estratto dal saggio di Lavinia Spalanca "Ars poetica. L’iconografia del paesaggio in Sciascia lirico" («Sinestesie. Rivista di studi sulle letterature e le arti europee», a. XVII, 2019, pp. 463-472).