di Lavinia Spalanca
Com’è cambiata, nell’arco dei decenni, la scuola italiana? E quale fisionomia hanno assunto alunni e insegnanti? Così com’è mutata, irrimediabilmente, la fisionomia dello studente, allo stesso modo quella del maestro, o del professore, risente delle complesse dinamiche relative all’evoluzione – o involuzione? - del sistema scolastico nostrano; o perché si pone al servizio dell’ideologia nazionalistica - facendosi portavoce del progetto educativo postunitario; o perché è vittima del centralismo burocratico - che ne fa un travet dell’intelletto; o ancora perché è testimone, il più delle volte impotente, delle contraddizioni della scuola nel secondo dopoguerra, spaccata in due fra nord e sud, centro e periferia. Leggendo le pagine dei nostri scrittori è possibile ripercorrere queste dinamiche, e il poliedrico ritratto che ne deriva è sì il frutto della loro personale interpretazione, dei loro umori e delle loro ideologie, ma rivela al contempo numerose costanti, che si rincorrono addirittura sino ad oggi.
Leitmotif del racconto di scuola, dall’Ottocento ai giorni nostri, è il contrasto fra le intenzioni programmatiche dello Stato e le concrete esigenze degli alunni, l’astrazione delle norme ministeriali e la reale condizione dei docenti, ma anche lo squilibrio fra scuole cittadine e di provincia, studenti abbienti e meno abbienti, insegnanti uomini e insegnanti donne, velleità pedagogiche e prassi giornaliera, opprimente apparato burocratico e altrettanto opprimenti necessità materiali. Si prenda il caso di De Amicis, ‘padre’ della letteratura scolastica italiana. Sgombrando il campo dai facili pregiudizi che tuttora gravano sull’autore - identificato col suo sdolcinato «Libro per i ragazzi» e non del tutto indagato, invece, per i romanzi anni ’90 percorsi da uno stridente antagonismo fra gli astratti teoremi pedagogico-patriottici e la tragicomica realtà dell’Italia sui banchi – prendiamo brevemente in esame Il romanzo d’un maestro, l’anti-Cuore pubblicato da Treves nel 1890. A dire il vero persino il libro Cuore, pur nell’edulcorazione della realtà, contiene illuminanti spunti di critica sociale: si pensi al fabbro ferraio padre di Precossi, «che rientra in casa ubriaco d’acquavite, e lo batte senza un perché al mondo, gli butta in aria i libri e i quaderni», o al «maestro di quarta, zoppo, imbacuccato in una grande cravatta di lana, sempre tutto pieno di dolori, e si prese quei dolori quando era maestro rurale, in una scuola umida dove i muri gocciolavano». Fa capolino, nonostante gli intenti rassicuranti del libro, quel contrasto palese fra scuole urbane e rurali, e dunque fra centro e periferia, che ritroveremo con ben altro vigore nel citato testo del ‘90, ascrivibile al genere del romanzo di “de-formazione”. Protagonista è il maestro Ratti, reduce da un faticoso apprendistato alla triennale Scuola normale, finalmente approdato ad un incarico nel vicino villaggio di Garasco: «Lo stipendio era poca cosa: settecento lire, ossia centoquaranta lire di meno di quello che lo stesso municipio offriva in quei giorni a una guardia campestre». Si comprende, già da questi primi cenni, come il romanzo deamicisiano non potesse assecondare quella retorica pedagogica tanto cara allo Stato unitario, e difatti vide le stampe solo quattro anni dopo la sua stesura. Se l’edilizia scolastica lascia a desiderare – e si pensi all’aula di Ratti, buia e dai banchi forati – «il corrosivo della scuola pubblica», ossia la privata nelle parole della maestra Strinati, si distingue per la sleale concorrenza, «una scuola di contrabbando, che porta via le alunne alla scuola pubblica, e non c’imparano il bel nulla». Ancora più tragicomica è la routine scolastica: ignoranza crassa degli alunni («certe teste sbozzate con l’accetta»), interruzioni per ristabilire la disciplina, gretta e subdola ostilità dei genitori, fatuità degli adempimenti burocratici («E pensava con un sorriso agro alle lunghe circolari ministeriali che raccomandavano al maestro, con forbito stile, di curare la purezza della pronunzia»).
Nell’arco temporale che va dalla composizione di questo caustico libro-inchiesta (1886) all’apparizione in volume dei racconti Amore e ginnastica e La maestrina degli operai (1892), raccolti da Treves nella silloge Fra scuola e casa, si compie l’adesione deamicisiana al Socialismo. L’attenzione ai ceti più svantaggiati, e il conseguente interesse per la Torino più periferica e degradata – correlativo della provincia, oggetto del precedente Romanzo d’un maestro – percorrono il libro deamicisiano che esibisce, sin dal titolo, una più forte valenza sociale: La maestrina degli operai. Protagonista è la giovane Varetti, di origini nobiliari, a confronto con gli alunni di un serale del suburbio torinese, il quartiere Sant’Antonio; carica di pregiudizi di classe, la maestrina è lacerata tra un’utopia redentrice di matrice cristiana e il terrore reale per quell’universo sconosciuto: «tutti quei ragazzi tra i dieci e i sedici anni, ch’essa vedeva uscire a frotte dalle fabbriche, maneschi, sboccati, insolenti». Attorniata da un corpo docente che ‘brilla’ per ipocrisia e demagogia, la Varetti si ritrova fra i banchi - in una classe «dov’erano alunni di ogni età, dai dodici ai cinquant’anni» - il famigerato Muroni detto Saltafinestra, che sin dal primo giorno intreccia con la maestrina un duello di sguardi fra il seduttivo, il provocatorio e l’intimidatorio. La vicenda, pur destinata a prendere un’inevitabile piega romanzesca – suggerendo, forse, che l’unica rivoluzione concepita dall’autore è quella del “cuore” - non impedisce a De Amicis d’illuminare, di una luce livida, un realistico spaccato di vita scolastica e sociale. Emerge dunque il ritratto di un’istituzione che fatica, a dispetto dei proclami, a ricoprire il proprio ruolo, e che condanna la figura dell’insegnante a un’immedicabile solitudine.
Non troppo dissimile il ritratto della scuola quale emerge, a distanza di decenni, dalla pagina sciasciana. Come ho potuto appurare visitandone la casa di campagna in contrada “Noce”, accompagnata dal nipote Vito Catalano, – che ringrazio per l’ennesima e preziosa “dritta” - spulciando fra gli scaffali dell’autore è possibile intravedere una copia illustrata della Vita militare (figg. 1-2) - e si sa quanto Sciascia amasse i libri illustrati - e soprattutto del volume deamicisiano Fra scuola e casa (fig. 3), segno di una conoscenza non occasionale dello scrittore ottocentesco, attestata peraltro da un articolo del ’65 sul giornale «L’Ora» (De Amicis e Rapisardi).
Lo scenario del secondo dopoguerra, ossia quello in cui vede la luce l’opera di Sciascia, non è poi così diverso dalle atmosfere del periodo postunitario. L’Italia, infatti, continua ad essere dominata da palesi antinomie, insanabili contraddizioni: da una parte la Costituzione del ’48 che sancisce, coi suoi otto anni di scolarità obbligatoria, il diritto di tutti all’istruzione; dall’altra il censimento del ’51, da cui emerge una realtà di duro analfabetismo. Se da Piaget a Dewey, da Capitini a Dolci, è un gran parlare di educazione sia in area cattolica che comunista, nella Sicilia di Sciascia ci si arrabatta fra carenza di aule scolastiche ed eccessiva burocratizzazione. È quanto emerge dalle Cronache scolastiche, apparse in rivista nel ’55 ed edite da Laterza l’anno successivo ne Le parrocchie di Regalpetra. Ad illuminare senza false ipocrisie il desolante scenario di riferimento è già l’incipit della prosa, col narratore che si aggira sconfortato fra i banchi, nell’arsura di un pomeriggio semiestivo: «Qui, in un remoto paese della Sicilia, entro nell’aula scolastica con lo stesso animo dello zolfataro che scende nelle oscure gallerie».
A motivare il disagio dell’io narrante, costretto ad una quotidiana descensio ad inferos, è il rifiuto delle logiche repressive della scuola, che costringono «trenta ragazzi» a star fermi per ore ed ore, così come il persistere di una disciplina di stampo fascista; si aggiunga lo scarto fra le prescrizioni governative e le reali esigenze degli alunni («Altro che favole grammatica le città del mondo e quel che produce la Sicilia: alla refezione pensano»). La scuola, in definitiva, non è il luogo in cui si va per imparare. Nella migliore delle ipotesi, questa “casa di pena” minorile serve a sfamare gli affamati, che s’avventano come cani sullo scadente cibo della mensa. Ad accrescere il malessere del narratore è poi la presenza di quelle figure d’autorità – il Direttore, l’Ispettore, il Monsignore – che sfilano in corteo dinanzi agli alunni, sciorinando le loro formule di comodo, invitando il maestro a usare la verga, e promettendo l’inferno a chi bestemmia. In un contesto così delineato, dove l’astratta normatività («noi maestri viviamo anche della quotidiana circolare; ci sono quelle del ministro, quelle dell’assessore regionale, del provveditore…») confligge con la legge del bisogno, e dove domina, soprattutto, l’impotenza dell’insegnante, ad alleviare la frustrazione del maestro è la confidenza con gli allievi, quel rapporto di fiducia che tuttavia non rimuove la distanza sociale. E qui si coglie un evidente scarto rispetto al De Amicis del Romanzo d’un maestro, impietoso nel ritrarre le condizioni della scuola ottocentesca ma incapace, pur nell’adesione agli ideali socialisti, di comprendere appieno le cause socio-economiche del degrado. Se radicata in Sciascia è la percezione del distacco fra scuola e mondo esterno, e dunque la coscienza della vani-tà del suo ruolo, l’unica forma di risarcimento diventa allora la scrittura, cui affidare quella fun-zione ‘pedagogica’ che il maestro, escluso dall’ingranaggio sociale, non è più in grado di esprimere.
A tramare la sua pagina è infatti un particolare saggismo narrativo, quasi che il racconto funga da supporto alle argomentazioni dello scrittore, la prima delle quali riguarda appunto la funzione dell’intellettuale. Quasi a scongiurare quel senso di colpa che lo attanaglia, legato al privilegio di classe che spetta al maestro, Sciascia non può che attribuire alla scrittura il compito di sollevare il velo della menzogna, di svelare l’arido vero, facendosi vicaria degli oppressi. Questa tensione etica imprime alla narrazione la sua particolare cifra stilistica, giacché la registrazione obiettiva è sempre inquadrata dall’ottica soggettiva dell’artista, in un intreccio fra registro ‘giornalistico’ e annotazione diaristica. Questa capacità d’analisi, che si unisce alla ricerca espressiva, domina costantemente il dettato. Sono fratelli ideali dei deamicisiani Robetti e Precossi i piccoli alunni di Sciascia che nelle desolate cronache del loro Natale, speso fra il gioco delle carte, il rito della messa e qualche onesta digressione, ci consegnano squarci di tristezza - «avevo vinto duecento lire e quando sono ritornato a casa mio padre me le ha prese e se ne è andato a divertirsi lui» - o magari un insperato dono: un bagno caldo «per lavarmi tutto». La sobrietà dello stile non cancella, anzi acuisce, il dramma di quest’umile classe studentesca, che la coscienza ideologica del narratore restituisce alla sua cruda verità. Una scrittura come specchio del vissuto, nel solco del coevo neorealismo, ma al contempo il preannuncio di quella “controstoria d’Italia letteraria e civile” che Sciascia tratteggia sin dai banchi di scuola.