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07/04/2021 09:35:00

L'insurrezione del VII Aprile 1860 a Marsala

 Nella ricorrenza del VII Aprile, il Centro Internazionale Studi Risorgimentali Garibaldini propone la lettura di alcuni brani estratti dal discorso commemorativo del Centenario, pronunciato nella Sala delle Lapidi di Palazzo VII Aprile dal Preside Prof. Pietro Ruggieri.


Cento anni oggi si compiono dall’epica giornata in cui tutto il popolo di Marsala insorse e tumultuò per le vie e per le piazze lanciando il grido di < Viva l’ Italia ! >, non più contenuto e represso, ma libero erompente da ogni petto, dai palazzi e dai tuguri, sfidando il corruccio dei pavidi sgherri di quella trista dinastia sul cui crepuscolo di sangue e di vergogna la storia impresse il marchio di < negazione di Dio >.


Un modesto artigiano, un sarto che aveva la sua bottega nei pressi della Chiesa della Madonna della Grazia, Giuseppe Laudicina, mentre alcuni tra gli ignari sgherri perlustravano torvi e minacciosi le vie della città, trasse fuori da un nascondiglio una bandiera tricolore e, dopo averla sventolata esultante e inneggiante tra il Cassero e Porta Mazara, la espose alla porta della sua bottega. Il suo nome è nella lista degli imputati del famigerato processo. E come per magico incanto bandiera risponde garrendo festosa a bandiera in tutte le piazze e le vie del centro cittadino alle porte terrane o a finestre e balconi di case di gente del popolo: da Porta Mazara, dalla bottega di tintore di Francesco Corona il vessillo tricolore saluta a breve distanza il vessillo fratello del sarto Laudicina. Una dopo l’altra, come a festoso convegno, si dispiegano e si richiamano con sussurri d’amore le bandiere dalle botteghe del calzolaio Vaiasuso, del sarto Giacinto Crimi, di Vincenzo Valenti merciaio, dalle case d Antonino Parrinello, di Francesco Di Bartolo, del cassiere comunale Gaspare Brigaglia, di Antonino Di Girolamo La Bella, di Antonino Pipitone, di Francesco Marino Cosenza e di tanti e tanti altri i cui nomi agli inquirenti rimasero ignoti.
Il Cassero, da Porta Mazara a Porta Nuova, le vie principali del centro sono percorse da una folla di popolo che acclama con grida esultanti all’Italia e alla libertà. In testa i promotori e i capi della cospirazione e dell’insurrezione portano in trionfo il tricolore e se lo passano di mano in mano e ne toccano e ne baciano i lembi. E’ lì Abele Damiani, reduce da qualche anno dalle orride prigioni della Colombaia e ammonito politico; è lì Andrea D’Anna, cospiratore della Giovane Italia, compagno di prigiona e di persecuzioni con Abele Damiani; v’è Giacomo Curatolo Taddei, cospiratore dal 1848, partecipe ai moti del 12 gennaio di quell’anno e combattente della prima guerra d’indipendenza; il sacro vessillo innalza ed agita sulla sua carrozza il Console sardo Sebastiano Lipari, che fu poi tra i prediletti del Condottiero delle Camicie rosse.

Tutti portano appuntata sul petto la coccarda tricolore: tante e tante ne aveva apprestate nel segreto della sua bottega il sarto Laudicina; tante e tante altre, con paziente attesa e con amore tenace, ne avevano apprestate i popolani sui compagni nei covi della cospirazione.E se furono i galantuomini a disarmare nelle prime ore di notte del 6 aprile l’ispettore di polizia e le guardie urbane - e qui vanno ricordati e onorati i nomi di Antonino Sarzana e Federico Spanò, dei fratelli Pipitone e di Francesco Mannone, di Totò Anselmi e di Giuseppe Scaglione , e vanno ripetuti i nomi di Damiani, Curatolo e D’Anna - , la mattina seguente, nel primo impeto della rivolta, umili popolani furono quelli che dall’ Ufficio dell’Ispezione di Polizia, dal corpo di guardia, dall’ufficio postale atterrarono gli stemmi dell’odiato borbone.
Per questo atto di pubblica violenza e di lesa maestà saranno processati il muratore Francesco Bagione, gli artigiani Gaspare Canino e Francesco Torre, inteso Francesco con un braccio, lo stesso tintore Franco Corona, che a Porta Mazara aveva issato il tricolore, e il bettoliere Girolamo Di Carlo, che dentro la sua bettola uno di quegli stemmi rabbiosamente ridusse in frantumi. Dalle prigioni del Castello vennero liberati i detenuti politici.
Fu costituito un Consiglio d salute pubblica, presieduto dall’Arciprete canonico Vincenzo Rallo e diviso in tre rami: amministrazione civile, sicurezza interna e finanze. Cospicui cittadini, nobili figure di patrioti ne fecero parte: tra essi Mario Nuccio, il sindaco Giulio Anca Omodei, il sacerdote Antonino Pellegrino.

Tre giorni durò la rivolta...tremenda notizia giunse in quel giorno di Pasqua. La sommossa di Palermo soffocata nel sangue: Francesco Riso ha il petto squarciato dal piombo borbonico, dei suoi compagni di fede e di lotta i più son caduti pugnando, altri trascinati al patibolo.
A Marsala si ripiegano le bandiere nell’ombra di altre attese. Gli sgherri, rinfrancati e da vili rifatti spavaldi, escono dai oro rifugi, ristorano, ripuliscono, rimettono ai posti consueti gli stemmi abbattuti.
Il popolo si disperde nelle case e nei campi. I capi della rivolta cercano rifugio alle rappresaglie imminenti in nascondigli di campagne lontane o mesti si avviano in terra d’esilio. Nell’isola di Malta riparano Abele Damiani, Andrea D’Anna, Giuseppe Garraffa, Giuseppe Scaglione; ed è con loro il sacerdote Francesco Gambini, che in ora più serena e più lieta detterà le epigrafi per il monumento a Garibaldi eretto in Porta Nuova.