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21/05/2021 06:00:00

L'arte di essere cretini. Su "Io non ci volevo venire", il nuovo libro di Roberto Alajmo

di Marcello Benfante

Leggere Roberto Alajmo è (quasi sempre) come bere un bicchier d’acqua. Acqua fresca, liscia e trasparente, priva di riflessi colorati. È, cioè, una lettura facile (absit iniuria verbis) e felice. Sa scrivere Alajmo. E sa farsi leggere.

Lubrifica le sue parole e le lima, depurandole di ogni asperità, fino a renderle perfettamente scorrevoli. Una prosa liscia come l’olio, insomma. A tal punto che l’impressione è quella di una totale assenza di stile. Di un grado zero della scrittura. Lo stile invece c’è, sebbene nascosto dall’understatement, ed è perfettamente riconoscibile. Nel bene e nel male, è lo stile precipuo e inconfondibile di Alajmo.

A me piace, anche se talora mi affiora momentaneamente alla coscienza critica qualche riserva, qualche remora. Ma subito dopo questo istante di perplessità, torno a godermi il suo mare piatto da bella giornata estiva.

D’altronde, vi sono insidie e profondità anche nei mari più calmi.

Alajmo ha un ritmo narrativo di totale scioltezza, un passo misurato che è frutto insieme di sicuro mestiere e di variabile talento (a volte spiccato, a volte più discreto).
L’entertainment d’improvviso si apre su una dimensione più impervia e problematica, ma solo per un attimo fugace, come affacciandosi su una torre che domina un vasto panorama di remote inquietudini.

In quest’ultimo suo lavoro “Io non ci volevo venire” (Sellerio, pagine 302, euro 15), godibilissimo romanzo simil-giallo in cui predominano gli elementi comico-parodistici in una chiave grottesca e ironica, Alajmo sembra quasi applicarsi in un esercizio promiscuo di stile (o di non stile).

L’operazione è tuttavia mantenuta da Alajmo, con indubbia perizia, sempre nei limiti di un calibrato divertissement, senza mai eccedere in una caricatura, né mai, d’altra parte, concedere spazio a una vera critica del genere poliziesco (tanto amato dall’editore Sellerio).

L’accorto mimetismo di Alajmo, che sa di doversi mantenere entro i limiti di una pedalata fluida, non si presta né a una polemica, per quanto soft, anticamilleriana né a un ossequioso omaggio.

Il suo umorismo, peraltro sorridente e tale da suscitare il sorriso, specie nel disinvolto realismo pseudo vernacolare dei dialoghi, non è motivato da un sentimento di contrapposizione (e quindi di irrisione), bensì da una mera ricerca di gradevolezza e di leggerezza. Una specie di ammicco, insomma, al compiaciuto lettore (come in certe citazioni: per esempio Totò e Peppino alle prese con la stesura di una lettera).

A leggere Alajmo, a lasciarsi prendere dalla sua ipnotica “facilità”, si ha spesso l’impressione del dejà vu (e del dejà lu). Non perché l’autore palermitano si ripeta o ecceda in ridondanza, ma piuttosto perché tende a recuperare e riutilizzare una serie di materiali linguistici e di pensieri (o luoghi comuni) che sono di dominio collettivo e che quindi suonano al nostro orecchio come di provenienza unanime, del lettore collegiale, anziché specifica dell’autore. La sensazione non è fastidiosa, anzi sollecita una specie di condivisione creativa. Il lettore, insomma, come co-autore.

Si verifica così, tra chi scrive e chi legge, una sorta di fraterno riconoscimento e rispecchiamento, un vicendevole compenetrarsi. Solo che Alajmo è, rispetto al suo lettore medio, decisamente più abile e affidabile nel riciclo di quei materiali pubblici, che sa calare molto meglio nel crogiuolo della narrazione. E questo è proprio un tratto caratteristico del suo stile.

Il protagonista di “Io non ci volevo venire” è Giovanni Di Dio, una improbabile guardia giurata che svolge, come una sinecura, un’inutile (o diversamente utile) ispezione notturna dei villini e degli appartamenti residenziali nella zona Partanna-Mondello. La sua vita è quasi tutta in questo giro di ronda o di giostra. Per il resto è solo una pingue accidia (come ci annuncia l’esergo tratto dall’Oblomov di GonĨarov), un rintanarsi nel sonno degli ignavi e degli inetti: “dormire è la cosa che gli riesce meglio”.

Non perché sia un sognatore. Anzi, un certo realismo inconcludente, una squallida e demotivante autopercezione, è la sua cifra più autentica.

Il sonno è piuttosto un’autodifesa passiva, un’uscita di sicurezza dai problemi, dai fallimenti, dai pericoli, dalle insicurezze. E ha proprietà fluide, il sonno, una capacità liquida di insinuarsi: “Come l’acqua si fa strada fra le volute del suo cervello fino ad occupare l’intero spazio che apparteneva ai pensieri”.

Dormire, quindi, è un’immersione subacquea che consente di non pensare, di fingere di non avere preoccupazioni, di mettersi al riparo dalla vita. Di morire, forse. Come una specie di eutanasia (“se la morte fosse così sarebbe una fine desiderabile, o quasi”).

Irresponsabile e inadempiente come certe figure della letteratura decadente (che comunque è molto lontana dal sentimento autorale di Alajmo), Giovanni appartiene al mondo subalterno delle retrovie, come da piccolo, quando il suo ruolo senza ruolo era giocare da portiere nelle partitelle di calcio stradale, ostruendo la via del goal agli avversari, in modo fisico e inerte, con la sua mole massiccia e la sua sacrificale obbedienza.

Crescendo, Giovanni, che tutti chiamano Giovà (in un modo che rimanda al Giufà del folclore arabo-siculo), è rimasto in porta, nella vita: fermo ad occupare uno spazio con la sua molle pancia, con il suo occludente torpore.

Sottomesso a una sorta di petulante e saccente triumvirato matriarcale composto da madre, zia e sorella gemella, il succube Giovà ha ottenuto un impiego da metronotte grazie alla raccomandazione del boss della borgata, l’onnipotente Zzu, titolare di un bar e deus ex machina di tutta la via del quartiere.

Qualcosa comunque è sfuggita alla supervisione dello Zzu. Una giovane donna è stata uccisa o forse si è suicidata. Per chiarire il mistero e trovare gli eventuali responsabili, lo Zzu ha convocato nientemeno che il povero Giovà, in virtù della sua divisa carnevalesca, come investigatore, private eye, piuttosto orbo invero.

Naturalmente, tale scelta non si regge in piedi che in un’ottica parodistica. Ma ha pure una motivazione metafisica, per così dire. Giovà è un “predestinato” la cui renitenza (“manco ci volevo entrare, in tutta questa vicenda”) non può salvarlo dal suo ruolo-non ruolo di capro espiatorio in cui è rimasto come incaprettato, nell’impossibilità di muoversi senza autostrangolarsi.

Dotato di una infallibile memoria, ma incapace di connetterne in un modo logico i dati acquisiti, Giovà è un detective piuttosto incongruo, privo di ratio e di intuito, il cui scopo è la mera sopravvivenza in un mondo di lupi.

Infantile ma ormai di mezza età, armato ma imbelle, vigilante non vigile, più mansueto che mite, Giovà, proprio come un Giufà, si trova in mezzo a un guazzabuglio troppo complicato per la sua anima semplice, per la sua essenziale dappocaggine autolesionista: “un po’ sono i guai che cercano lui e un po’ è lui che se li va a cercare”.

Però se la cava in qualche modo (benché il finale resti aperto alle più tragiche conclusioni). Nella iella dei vinti recupera un po’ di fortuna, la fortuna dei bambini e degli ubriachi, e riesce alla meno peggio, con molti aiuti, a trovare una soluzione al mistero e a scampare alle insidie più feroci.

Il vaso di coccio rimarrà fino alla fine (ma poi?) integro, evitando di collidere coi vasi di ferro della malavita locale. Perché in fondo il vero modello di Giovà, quest’eroe per caso malgré lui, è Don Abbondio, uno che il coraggio non se lo trova addosso e non se lo sa dare: “il coraggio non è una cosa che vai dal medico, lui te lo prescrive e tu te lo vai a comprare in farmacia”.

E la commedia, la farsa, il cabaret (che tale è esplicitamente fin dal titolo che richiama un vecchio tormentone de “I Cavernicoli”), improvvisamente si muta nella tragedia di un uomo ridicolo, per il quale autore e lettore non possono non provare, seppure con fastidio, un sentimento di sincera pietas, ancorché non priva di una più prosaica commiserazione.

Giovà è un cretino, inesorabilmente. Cretino in un senso sciasciano, per così dire. Non un cretino intelligente come il professor Laurana di “A ciascuno il suo”, che risolve il caso e soccombe alle ferali malizie di una nostrana dark lady. Ma un cretino pressoché assoluto e mischinu, di virginale e patetica inadeguatezza.

Delle cui disgrazie, come di chi inciampa su una buccia di banana, ci scappa anche da ridere, sebbene amaramente e pirandellianamente, per una sorta di avvertimento del contrario.