di Gianfranco Perriera
“Via di qua, via di qua, sempre via di qua – risponde il signore a cavallo alla domanda del suo servo nel racconto La partenza di Kafka – solo così posso raggiungere la meta”. Una tale frase potrebbe ben essere posta a esergo di tutte le opere di Canetti. Con lucido, appassionato, sempre un po’ divergente slancio, Elias Canetti, intellettuale tra i più cosmopoliti della nostra epoca, ha cercato di liberare gli umani dalla prigione – violenta, miserevole o fatua che sia – in cui tante volte finiscono per rinchiudersi. A lui, a un tale maestro del pensare, Salvatore Costantino dedica un’accurata e assai approfondita monografia, Il mondo senza testa, edita da Franco Angeli, commentandone con acutezza la ricca produzione, mettendone a confronto il pensiero con numerosi altri autori suoi contemporanei (e non solo) e corredando l’interpretazione di una ricca bibliografia critica.
Dal primo, e unico, romanzo di Canetti prende le mosse la monografia, da quell’ Auto da fé – il cui titolo originale Die Blendung, L’accecamento, sarebbe stato più consono mantenere in traduzione – in cui il sinologo Peter Kien “consuma la sua paranoia vivendo in una condizione maniacale di isolamento”. L’intellettuale, ultra specializzato, dunque, si segrega, invano, in una torre d’avorio a custodire i suoi libri, cercando così di sottrarsi alla congerie del reale, ma dal reale sarà travolto: invasato dal delirio, Peter Kien si lascerà bruciare dal rogo da lui stesso appiccato ai suoi libri. Il mondo, davvero senza testa, in preda al caos, soccombe ad un autodistruttivo stravolgimento: se la fine del romanzo è anche un chiaro riferimento al rogo dei libri nazista, il tentativo di Kien (stare all’erta può significare la locuzione tedesca kien sein, ma ben poco all’erta sta il protagonista del romanzo) di ritirarsi in uno sdegnoso e insieme angosciato isolamento si risolve non soltanto in un fallimento, ma in un suicidio che finisce per duplicare lo sconvolgimento dei tempi.
Alla catastrofe incombente, alla dissennatezza suicida che – sottolinea Costantino – la contemporaneità neoliberista sembra, disinvolta, accettare, Canetti non cerca di sfuggire. In questo compagno di tanta cultura novecentesca che aveva colto lo stretto legame tra “degradazione e progresso, l’autore di Massa e potere non vuole chiudere gli occhi alla scomposizione del reale, alla crisi che lo attanaglia. Anzi il deragliamento va ascoltato, esibito, affrontato: occultarlo o ignorarlo sarebbe causa di ancora più drammatiche derive.
L’epoca attuale è quella della dissipazione dell’esperienza, aveva già detto Walter Benjamin. Ma è per questo che all’esperienza del reale uno scrittore non deve mai sottrarsi, ci avverte Canetti. La storia, ci ha ricordato George Steiner, è piena di circostanze in cui gli intellettuali si distraggono, non si accorgono del dilagare della più crudele ferocia, perché si stremano, probabilmente, in particolarità ultraspecialistiche della loro disciplina. E’ per questo che uno scrittore non deve mai essere cieco e sordo al mondo, ci raccomanda Canetti. “La realtà è per sua natura poliedrica – commenta Costantino – multidimensionale e gettare qualche luce su di essa è possibile soltanto attraverso l’esperienza diretta che è parte essenziale per penetrare il caos che ci circonda”. Ed è proprio dalla consapevolezza che il mondo che lo circonda è ridotto in pezzi, che Canetti – sottolinea ancora con perizia Costantino – giunge a Kafka, ne La metamorfosi del quale “individua un modello eccezionale di narrazione fondata sulla massima perfezione”. Una scrittura che provochi larghe ferite alla coscienza, affinché essa possa divenire sensibile ad ogni morso: ecco ciò che lo scrittore nato a Ruse ricava dallo scrittore nato a Praga. Stare perciò sempre di lato ad ogni verità conclamata, sfuggire ogni pietrificazione del senso ma insieme non farsi mai banditore di una dissoluta insensatezza; non soccombere alla specializzazione disciplinare ma insieme non rinunciare alla profondità del sapere; coniugare l’infinita curiosità del pensare con la più gentile disposizione del sentire, non rimuovere la consapevolezza delle macerie che il progresso ha disseminato nel suo percorso ma insieme non deflettere da un’etica della speranza: questi i percorsi del pensiero canettiano. Un pensiero che non arretra di fronte alle contraddizioni e a cui Costantino sa dedicare dense pagine. Kraus e Kafka, Hobbes e Nietzsche, Benjamin, Adorno e Habermas, Cervantes e Calvino, sono le figure con cui l’autore della monografia fa dialogare l’opera di Canetti. Di essa due sono le direttrici da Costantino, ordinario di Sociologia all’Università di Palermo, individuate in particolare: la responsabilità, quale prassi fondativa della scrittura, che solo in tal modo ascolta e incontra l’altro; la metamorfosi – pietra filosofale, in effetti dell’avventura canettiana, vero crogiolo alchemico della rigenerazione, una volta attraversata le nigredo – mediante la quale sfuggire ogni mortuaria e mortifera calcificazione dell’umano e delle sue visioni del mondo.
Per quanto riguarda il primo punto, la responsabilità dello scrittore cioè, Costantino sottolinea come “soltanto pochi, come Elias Canetti, hanno saputo esprimere fino in fondo il lavorio di una cultura che si avverte consapevole e responsabile e, al tempo stesso, cosciente di tanti fallimenti, della propria intrinseca fallibilità e dei limiti stessi del linguaggio”. Se da tanto tempo si ripete ”l’incessante discorso della fine”, lo scrittore, senza mentire e senza nascondersi il rischio, deve pure individuare i varchi e le memorie che permettano agli umani di scampare alla catastrofe. “Guida preziosa per ritrovare la via smarrita”, Canetti non invade la mente. Scrive e argomenta, invece – forse è proprio per la sua vocazione ad argomentare che non amò mai del tutto lo sperimentalismo verbale - brillantissimo nei suoi aforismi, per invitarci a non cedere alla pochezza e alle brutture.
Per quanto riguarda il secondo vettore, la necessità della metamorfosi, la scrittura di Canetti ne diviene la custode indefettibile. Senza metamorfosi – filo rosso che tiene unita tutta la rilettura operata da Costantino, che si sviluppa tra tappe e divagazioni che arricchiscono l’interpretazione, ma che non perde mai la meta – in un mondo sempre più disgregato e votato al suo annichilimento, si soccomberà alla catastrofe, ci si congelerà nei rigidi diktat della morte. “Il libro contro la morte è ancora il mio libro per antonomasia”, scrisse Canetti. Morte, in effetti, significava per Canetti precipitare nell’afasia o nella disgregazione semplicistica del linguaggio; morte significava ritorno all’ancestrale o soccombere alla più bieca volontà di potenza che si riduce alla brama del sopravvissuto, a quel delirio di potere che vuole ergersi unico rimasto in vita tra un cumulo di morti. “Accanto alla centralità del potere – chiosa Salvatore Costantino – si pone dunque il tema della capacità di metamorfosi dell’uomo “al quale “ben pochi si rendono conto di dovere il meglio di ciò che sono”.
“Solo l’inquieto ha la possibilità di essere pio – aveva scritto Ernst Bloch – ed il suo esprimersi e continuo rinnovarsi è l’unica cosa alla lunga veramente profonda”. “Io cerco l’intento persecutorio dentro di noi”, scrisse Canetti, precisando ancor più profondamente che è dalla sindrome dell’ultimo sopravvissuto all’interno di noi stessi che siamo chiamati a non lasciarci sopraffare. Soltanto da tale premessa è possibile praticare un’etica della speranza. E a quest’etica ci richiama l’appassionata monografia di Salvatore Costantino.