di Marcello Benfante
Si continua a tornare, sia in campo critico che in quello editoriale, sulla complessa e sfaccettata figura di Angelo Maria Ripellino (Palermo 1923 – Roma 1978), sempre scavando e cercando nella sua vastissima e variegata opera, recuperando e riproponendo un materiale disperso e pressoché irreperibile. Si tratta di un repertorio prezioso quanto eterogeneo, tra saggistica e letteratura, sul quale si esercita un’attenzione critica costante, e in cui si configura un fenomeno culturale caratteristico dell’attuale stagione rivolta a un passato che appare perduto ma tuttavia è sempre attuale. Poiché, come per la sua magica Praga, anche per Ripellino “non avrà fine la fascinazione” e certamente vi torneremo ancora in un percorso lunghissimo e “meraviglioso”.
Di Angelo Maria Ripellino, intellettuale poliedrico e profondo, considerato tra i massimi slavisti europei, docente di letterature slave e traduttore, poeta e critico teatrale, narratore e giornalista, riemergono ora, infatti, grazie all’instancabile e competente lavoro del curatore Antonio Pane, due scritti poco noti che risalgono agli anni giovanili del grande studioso siciliano, ma già ne rivelano uno “sguardo lungo e stereoscopico”, come scrive lo stesso Pane nell’introduzione.
Con il titolo di “Fantocci di legno e di suono” (Aragno, pagine XI – 87, euro 12) vengono raccolti due preziosi saggi e brevi apparsi nel 1949 sulla rivista “Convivium” diretta da Carlo Calcaterra, aventi rispettivamente per tema il teatro delle marionette nel romanticismo ceco e il futurismo russo, soprattutto in relazione all’opera dello scrittore Velimir Chlèbnikov (il “poeta per i poeti”, come lo definì Majakovskij nel suo elogio funebre), nonché le sovrapposizioni e interconnessioni tra questi due ambiti, a prima vista così diversi storicamente e geograficamente.
Del teatro delle marionette ceco Ripellino, in un rapido excursus, sottolinea il carattere educativo e popolare (“al pari degli almanacchi, delle canzoni da fiera, delle storie orride”) in un tempo in cui il Ceco era decaduto alla stregua di un “lingua rustica”, alla quale ovviamente le classi aristocratiche preferivano il tedesco.
Forma d’arte più economica e pratica del teatro con attori in carne e ossa, il teatro di marionette azionate da fili di ferro (“pimprlata”) penetrava con più facilità nella provincia, in cui spesso costituiva l’unica manifestazione culturale o almeno una delle rarissime occasioni per esprimere una vitalità artistica altrimenti destinata al silenzio. Alle sue origini vi è probabilmente il presepe animato (il cosiddetto “betlem”), poi trasformatosi in una vasta congerie di generi bassi e circensi, da sagra o mercato, basati per lo più su rifacimenti anonimi di opere letterarie, libretti d’opere e miti.
Spesso il teatro di questi “fantocci di legno” aveva per argomento un dramma criminale e brigantesco, in cui, nota Ripellino, “i briganti portano nomi italiani deformati: così Boleri di Sicilia (Cecilie), capo d’una terribile banda, Boloneri, Remini col servo Lomeni ecc.”.
Possiamo immaginare che forse il pensiero di Ripellino sia corso a ripensare al teatro dei pupi siciliano, a un certo suo folclorico manicheismo e all’enorme impatto che esso esercitava sui ceti popolari, soprattutto nei piccoli centri di un contesto arretrato.
È una fantasia, questa, che ci è suggerita dalla vivace descrizione che Ripellino fa dell’arrivo di un teatrino in un villaggio ceco con i commedianti che “si fermano con il loro carro dinanzi alla locanda tra uno stuolo di ragazzi” e poi “vanno in giro con enormi tamburi per chiamar gente allo spettacolo”: efficacissimo bozzetto (quasi che Ripellino lo riprendesse dal “vivo” della sua esperienza memoriale) di una realtà deprivata in cui le marionette rappresentano il solo sfogo a un’immaginazione soffocata e depressa.
Il repertorio di questa miniaturizzata Commedia dell’Arte da fiera e da baraccone, la cui caratteristica parabola muove dall’eroico al comico, dall’epico al parodico, si esprime in una lingua “goffa e grossolana, irta di parole tedesche boemizzate”, in cui i personaggi sono caratterizzati dalle peculiarità del lessico e della pronuncia (non diversamente, potremmo forse dire, dalla magniloquente dialettofonia dei pupari siciliani).
Da una natura lignea, il personaggio marionettistico si fa quindi suono, voce, parola. Come smaterializzandosi in un fenomeno acustico, in un’essenza linguistica. E in questa verbalizzazione potremmo forse trovare un trait d’union con una componente del futurismo russo, ovvero col suo scorgere nei fenomeni linguistici un “gioco di fantocci”, come una sorta di “marionette-suoni” e di lingua transmentale o “stellare” (il cosiddetto zaum’) svincolata dai significati.
Ripellino insiste sulle differenze inconciliabili e “l’assoluta incompatibilità” tra il futurismo italiano e quello russo (la derivazione di quest’ultimo dal cubismo e la sua vocazione pacifista, in primo luogo, ma anche un certo primitivismo e un ritorno ai miti slavi). Il suo discorso, come sempre filologicamente ben saldo e scrupolosamente documentato, rivela, insieme a una precisa vocazione pedagogica, anche una felice predisposizione colorista e aneddotica al racconto-saggio, che fa di lui, a soli ventisei anni, uno scrittore “a tutto campo”, per così dire già pienamente ripelliniano, di versatile approccio e di straordinaria personalità.