Lo sapete: qui ci teniamo molto a parlare bene di chi ci prova, di chi fa, di chi organizza. Storicamente poi abbiamo un occhio di riguardo per i festival: perché per anni in Italia è stato difficilissimo farlo (correggiamo: lo è ancora, anche se un po’ meno di prima), e perché siamo convinti che una “via italiana ai festival” possa essere un enorme valore aggiunto: il nostro territorio ha delle specificità storiche, geografiche, umane che lo rendono non solo unico ma anche un playground perfetto per costruire una esperienza-festival come nessun’altra. Non saremo organizzati come i centro-nord-europei, non saremo performanti come gli americani, non saremo ricchi come certi contesti asiatici, non saremo armati di entusiasmo e buon senso delle istituzioni come i francesi e gli spagnoli o entusiasti e ben disposti come nell’Est Europa, ma da noi può venire fuori qualcosa di unico. Di prezioso.
Il che è una soddisfazione a livello morale, certo; ma anche e soprattutto è un volano di investimenti economici e culturali che può decisamente fare del bene alla collettività, in modo tangibile, non solo a belle parole e buoni sentimenti. Ecco perché è una presa di posizione precisa quella di supportare spesso e volentieri i festival, qui (anche se bisogna riequilibrare un po’ le cose a favore dei club, ma qui il discorso diventa lungo – tenete però a mente questo punto).
Esiste l’altra faccia della medaglia. E fa rabbia. Un’altra faccia della medaglia che ha radici antiche: quelle per cui in Italia la cultura è vista essenzialmente come un fatto clientelare, e stop. La cultura come qualcosa con cui “…non si mangia“, qualcosa che non genere ricchezza e guadagna, e quindi giocoforza per esistere deve essere per una graziosa episodica concessione dall’alto. Tutto questo l’abbiamo sempre trovato pessimo: ma pessimo vero. Anche perché spesso e volentieri figlia alla fine delle scelte artistiche al ribasso, fatte per mandare in sollucchero l’assessore o il potente di turno con la “gratificazione immediata” più piana e banale e non invece per costruire un discorso, condurre in una nuova dimensione chi il festival lo fa e pure chi lo segue.
Visto che l’Italia dal punto di vista amministrativo è troppo spesso un paese del cazzo (forse per controbilanciare il fatto che su molti altri aspetti sia uno dei posti più meravigliosi della terra), le risorse pubbliche vanno in stragrande maggioranza a questi festival che nascono “sbagliati” e, quasi sempre, si sviluppano “sbagliati”; mettono magari in campo anche aspetti e pratiche positive, massì, che però sono più una foglia di fico che una ragione d’essere. Quindi sì, stavolta ci sentirete parlare molto male di un festival, al contrario del solito. E lo faremo già ora, col festival ancora in corso (è iniziato due giorni fa, termina il 19 settembre): perché anche se le esibizioni si rivelassero tutte bellissime e il festival andasse alla grande, nel Sicilia Jazz Festival c’è proprio un problema di fondo.
Ci eravamo insospettiti fin dall’inizio: vedendo la pubblicità dell’evento in televisione, e sui grandi quotidiani. Se ci pensate, non accade praticamente a nessun festival: di solito non ci sono le economie per farlo. I pochi che ci riescono sono quelli che hanno le spalle larghissime e non temono il rischio d’impresa, grazie a contributi sia pubblici (per lo più) che privati (qualche volta). Ecco, ovviamente non ci sbagliavamo: al Sicilia Jazz Festival pare sia andata metà della torta da un milione e duecentomila euro (lo scriviamo in cifre: 1.200.000 euro) approntata dalla Regione Sicilia attingendo dai Fondi Europei per lo sviluppo degli spettacoli dal vivo e destinata solo a due entità. L’altra metà o giù di lì è andata a BelliniInFest: ci sarebbe da fare un lungo discorso come in Italia non si scandalizzi nessuno per le cifre che vengono date alla sfera classica, vengono considerate “normali”. Magari ci torneremo sopra in futuro. Però ora restiamo sul punto.
(“Anche sulle reti Mediaset!”, recita la didascalia sotto questo post annunciando il teaser pubblicatario: che culo! Continua sotto)
E’ sbagliato dare 650.000 euro o quel che è a un festival di musica jazz? Assolutamente no. Potrebbe anzi essere un ottimo investimento. Ma dovrebbe esserci come minimo ma davvero come minimo una progettualità ad ampio raggio, per giustificare uno stanziamento del genere: progettualità che non è quella de “Schiaffiamo i grandi nomi, così andiamo a colpo sicuro – perché tanto si sa che il popolo è bue“, e non è nemmeno quella de “…e poi usiamo quel che resta per far lavorare i giovani del posto e le realtà di base istituzionalizzate, così almeno ogni tanto si dà una bottarella al loro calendario e fanno qualcosa, ‘sti morti di fame“. A naso, però, entrambi questi criteri sono stati la linea guida che sta dietro ai finanziamenti al Sicilia Jazz Festival e, conseguentemente, alla sua costruzione. Oh sì. Ci mettiamo la faccia nel dirlo.
Tu dai 650.000 euro ad un festival che poi mette come headliner Mario Biondi? Sul serio? E non è un attacco a Mario Biondi in sé, ma lui è di sicuro un artista talmente popolare – e anche paraculo nelle proposte artistiche, diciamolo – che una sua esibizione non ha certo bisogno di essere insufflata da denaro pubblico in queste proporzioni, zero proprio. Lo stesso discorso si può fare per fare Stefano Bollani: che è bravo, bravissimo, è uno dei migliori pianisti jazz europei e il suo istrionismo “televisivo” spesso questo lo fa dimenticare, quindi viva Bollani; però ecco, proprio questo istrionismo lo ha reso un personaggio altamente popolare – talmente popolare che oggi organizzare un suo concerto è abbastanza un colpo sicuro. Quindi sì: anche in questo caso utilizzare dei fondi pubblici per inserire Bollani in line up è come usare un cannone per abbattere una zanzara – un po’ stupido, un po’ inutile, un po’ uno spreco.
Proseguiamo? Alex Britti è un bravissimo chitarrista blues, non solo il personaggio che si è votato al pop usa-e-getta più o meno di qualità, ma cosa dobbiamo pensare a vederlo messo come headliner in un festival che vuole definirsi “jazz”? E’ appropriata, la sua presenza lì? Che giudizio dobbiamo dare della curatela dell’evento, se fa queste scelte? Uno scimmiottamento in scala minore della deriva (pessima) presa del Montreaux Jazz Festival, a esser buoni. E Samuel? Bella l’idea di farlo collaborare con l’amico storico Roy Paci – bravissimo! – e con un talento assoluto del rap come Johnny Marsiglia, bella davvero, ma non è una interpretazione troppo “estensiva” di jazz, al di là del fatto che poi magari plana tutto sopra una big band jazz? E’ il caso di chiederselo, e non è questione di essere “puristi“, soprattutto considerando il cartellone nel suo insieme. Siamo al livello che in proporzione l’unico nome “fresco” e credibile è Richard Bona (ottimo, ma per un appassionato di jazz è fresco come lo è Claudio Baglioni per uno della scena indie attuale), e poi c’è il caro, vecchio Billy Cobham: che è ancora oggi una forza della natura e comunque ha una storia che bisogna solo inchinarsi, ok; ma nella cartografia del jazz attuale è significativo come il secondo portiere di una squadra di Lega Pro. O una vecchia gloria che va a giocare in MLS.
(Un festival fresco e sorprendente – no, non è questo; continua sotto)
Questa la batteria degli headliner, a cui aggiungere l’immancabile omaggio a Franco Battiato (…e chissà se il cantautore sicialiano sarebbe stato contento di essere usato così post mortem come “madonna pellegrina” degli omaggi, non ne siamo tanto convinti). Poi per carità: ci sono altri concerti in cartellone, c’è il coinvolgimento dei Conservatori e delle Orchestre locali, il che è molto bello; ma diventa molto brutto nel momento in cui pare veramente la “toppa” messa lì per giustificare l’impatto locale+sociale del festival. Più insomma una pecetta messa lì per dare un senso al contributo-monstre che una scelta artistica precisa e con un disegno delineato, insomma. E molte scelte comunicative adottate da Sicilia Jazz Festival paiono andare proprio in direzione di questa ipotesi “malpensante”. Non ci si crede davvero, insomma; non si dà cioè alle giovani/minori realtà un palcoscenico importante e la possibilità di essere davvero un marchio qualificante dell’operazione, con un approccio progettuale ad ampio respiro, strategico. Diciamolo: il sospetto è che si sia ragionate così, “Abbiamo preso 650.000 euro, so’ tanti sì, ma tranquilli che c’è qualcosa anche per voi realtà minori“. State bboni, detto alla Costanzo.
Con 650.000 euro – una cifra che divisa fra tutti i festival di cui ha parlato Soundwall negli ultimi dieci anni li farebbe stare benissimo e permetterebbe loro di operare con ancora più qualità, quindi con ricadute culturali ed economiche tangibili su tanto territorio italiano – quello che vorremmo è che si creasse un evento all’avanguardia assoluta, qualcosa di oggettiva qualità. Perché hai le spalle coperte, puoi permetterti di innovare, di rischiare, di inventare, di investire per creare nuove stelle e nuovi protagonisti, di esplorare per presentare agli appassionati di nicchia ma anche al largo pubblico delle cose che non sentono già mille volte per i fatti loro. Potresti anche creare qualcosa che diventa attrattivo a livello europeo, eccome: ma il Sicilia Jazz Festival nelle sue scelte stilla solo provincialismo. Profondo provincialismo culturale. Quello per cui in Europa siamo ancora troppo spesso noti, ed è una fama che è una zavorra (anche) per chi vuole fare le cose per bene.
Lo diciamo con la morte nel cuore, perché la realtà che più sta dietro a livello ideativo al Sicilia Jazz Festival – il Brass Group – è una realtà storico dell’Isola e negli anni, anzi, nei decenni ha fatto delle cose incredibili per la diffusione del jazz di qualità. Incredibili. Basti dare un’occhiata all’elenco di ospiti che si sono succeduti negli anni e, aneddoto personale, quando ero finito per una serie di casualità nella loro sede attaccata allo Spasimo (uno dei posti più incantevoli possibili, tra l’altro) mi era venuto quasi un attacco di sindrome di Stendhal a leggere i manifesti degli eventi da loro organizzati, scelte intelligenti, competenti, spesso non scontate, talora semplicemente grandiose. O il capitale intellettuale del Brass Group è andato completamente a ramengo, o per accettare di essere protagonisti nella spartizione della torta da oltre mezzo milione di euro hanno dovuto chinare il capo e preparare qualcosa di veramente “basso”, qualcosa che non fa onore alla propria storia e al proprio modo di lavorare (almeno in passato).
Così non si va da nessuna parte.
Così si spreca solo denaro pubblico.
Così si rafforza solo l’idea che la cultura “a forte impatto sociale e popolare” possa esserci solo se si realizzano delle regalie, che finiscono poi utilizzate su binari che esulano completamente dai percorsi tratteggiati da chi di certe scene, di certe musiche e di certe cultura è invece competente davvero, navigando invece verso l’usato sicuro, il luogo comune, il nazionalpopolare.
Una visione completamente e clamorosamente vecchia questa, e già questo basterebbe a condannarla; una visione però ancora più colpevole nel momento in cui ogni singola risorsa è preziosa, non sono più gli anni ’80, che possiamo gettare soldi a casaccio. Stampiamocelo in testa. Tutto questo nel momento in cui invece realtà altamente qualitative e professionalizzate in Italia per produrre degli eventi e delle rassegne immaginate con criterio esistono, e anzi, non solo esistono, operano già, rischiando quasi sempre tutto di tasca loro. Lo fanno, creando nuovi pubblici, nuovi interessi, nuove dinamiche, nuovi ponti con le realtà europee e mondiali più avanzate.
Anche Sicilia Jazz Festival poteva essere tutto questo.
…invece, scodella una line up di headliner triste, telefonata, zero coraggiosa; fa affiorare pure Joe Bastianich nel cartellone principale (per meriti ovviamente musicali, no?); e usa il resto come contentino, come giustificativo, come “Ecco, vedete che facciamo cultura e aiutiamo anche i piccoli e i poveracci?“.
No. Non la state facendo. Di cultura, non ne state facendo. State solo sprecando risorse che potevano – e dovevano – essere utilizzate molto meglio.
Ci spiace per chi non se ne rende conto. E ci spiace anche per chi a Sicilia Jazz Festival ci sta lavorando, con professionalità e dedizione: questi sforzi avrebbero potuto essere indirizzati, dall’alto, molto meglio.
Di Damic Ivic - pubblicato su Soundwall.it