Il gambero di Mazara non esiste. Quest’affermazione, che può sembrare assurda, è quantomai veritiera. Dobbiamo iniziare con il capire cosa s’intenda per “Gambero rosso di Mazara” per poter comprendere a pieno l’incipit di questo articolo. Questo famoso crostaceo è il fiore all'occhiello della marineria più grande d'Italia. Traducendolo in numeri, nel nostro Paese si contano più di 800 punti di sbarco, di cui quasi 200 sono porti in senso stretto. Di questi, 35 sono considerati porti pescherecci principali. Il 33% della flotta peschereccia italiana è iscritto nei compartimenti della Sicilia.
Mazara del Vallo, in provincia di Trapani, possiede il porto peschereccio più importante d'Italia: è la base di armamento di una flotta di circa 400 grandi motopescherecci d'altura (con circa 4.000 pescatori imbarcati), che rientrano ogni 50-60 giorni. Quando viene pescato legalmente, tracciato e conservato secondo legge, il gambero è un prodotto apprezzato anche a livello internazionale.
I menù delle migliori tavole abbondano del prezioso crostaceo, i ristoratori se lo contendono da sempre mettendolo in bella vista sul bancone del pescato. Anche il consumatore singolo non è immune al suo fascino ed è disposto a pagarlo al dettaglio fino a 70 euro al chilo. Quel suffisso geografico ha un richiamo indubbio e viene immediatamente percepito come sinonimo di qualità e opulenza, visto il costo.
Siamo arrivati dunque allo stesso paradosso del pistacchio di Bronte. Basta infatti pronunciare le parole “gambero rosso” che l’associazione con il piccolo comune del trapanese è immediata. Ma, esattamente come col famoso pistacchio, la domanda resta la medesima. Ma sarà tutto di Mazara questo gambero?
Rispondere semplicemente “no” sarebbe riduttivo. Nessun gambero con questa dicitura, che troverete in pescheria o sulle tavole dei ristoranti, è pescato a Mazara del Vallo, se non in una percentuale risibile rispetto ai volumi d’affari. Per gambero rosso di Mazara s’intende quello tirato in barca dai suoi pescatori e sbarcato a Mazara, non la zona di provenienza del prodotto stesso.
Il crostaceo viene pescato quasi esclusivamente in acque internazionali (con buona pace delle controversie con la Libia). Pantelleria, Lampedusa, Malta, la zona ad est di Cipro, parte delle sponde turche e, naturalmente, la Libia. Proprio i mari che bagnano le soleggiate coste libiche restituiscono più dell'80% del gambero rosso commercializzato in Italia e, dato che il pescato proviene dalla stessa zona Fao, la 37 per la precisone, sarebbe più onesto parlare di gambero rosso del Mediterraneo. Certo, un’operazione trasparenza di questo genere farebbe crollare immediatamente l’appeal del crostaceo.
Chi sarebbe disposto a pagare 70 euro al chilo un gambero rosso libico, turco, o più genericamente “del Mediterraneo”? Insomma, l’abito non fa il monaco, ma lo veste. Ed è proprio da questo appeal generato dal nome che si fondano le fortunate paranze di pescatori e ristoratori.
C’è da rilevare inoltre un altissimo rischio di contraffazione del prodotto, che purtroppo per noi non abbraccia soltanto il mondo dei crostacei.
Nei mari italiani si pescano ogni anno circa 180 milioni di kg di pesce cui vanno aggiunti gli oltre 140 milioni di kg prodotti in acquacoltura, mentre le importazioni dall’estero hanno ormai superato il miliardo di chili (dati Istat 2018). Questa situazione genera grande confusione: dal pangasio del Mekong venduto come cernia, al filetto di brosme spacciato per baccalà, fino all’halibut o la lenguata senegalese commercializzati come sogliola. Una frode in agguato sui banchi di vendita in Italia e soprattutto nella ristorazione dove non è obbligatorio indicare la provenienza.
Un rischio confermato dai dati del Rassf, il sistema europeo di allerta rapido che, su un totale di 399 allarmi alimentari segnalati nel nostro Paese, ha visto ben 154 casi riguardare proprio pesce e crostacei, ovvero il 40% del totale.
E il nostro amato gambero rosso di Mazara? Non stupitevi se vi diciamo che la maggior parte di quello presente sulle tavole arriva dal Mozambico. Distinguerlo dall’originale è praticamente impossibile, quantomeno esteticamente: testa, dimensioni del carapace e struttura anatomica sono praticamente identiche. Anche il colore è molto simile. Solo all’assaggio si potrà notare un gusto più vivo e selvaggio, in quello definito nostrano, ma bisognerebbe essere assaggiatori esperti per distinguerli nettamente.
Insomma, una rete fitta sia per chi pesca e commercializza onestamente, sia per il consumatore che rischia di restare incagliato suo malgrado.
L’altissimo rischio di contraffazione è supportato anche dalla pericolosità di questo tipo di pesca. I pescherecci difatti, causa cambiamento climatico e riscaldamento dei mari, devono spingersi sempre oltre rispetto ai confini territoriali assegnati, incappando spesso in operazioni di sorveglianza poco nitide, esattamente come gli accordi che le regolano.
La guerra del gambero rosso ha origine antiche ed epiloghi cruenti. Il 9 agosto 1960, un peschereccio proveniente dalla cittadina siciliana di Mazara del Vallo viene intercettato da una motovedetta tunisina. Partono dei colpi che uccidono l’armatore Luigi Licatini e il comandante Nino Pagano. Il resto dell’equipaggio viene catturato e tenuto in ostaggio nell’attesa di decisioni politiche.
Passano i tempi, cambiano i soggetti, ma non la cronaca dei fatti. Il primo settembre 2020, l’equipaggio della “Antartide” e della “Medinea” viene catturato dalle forze del Generale libico Khalifa Haftar e detenuto senza processo per 108 giorni. La motivazione è sempre la stessa: sconfinamento in ZEE (Zone Economiche Esclusive).
La geopolitica della pesca nel Mediterraneo è quantomai farraginosa. Mai si è stati in grado di promulgare accordi vantaggiosi da entrambe le parti proprio per l’ambiguità delle ZEE. Le stesse possono estendersi ben oltre le proprie acque territoriali e i governi possono accaparrarsele senza chiedere permesso.
La Libia di Gheddafi si affrettò a ridisegnare i confini, tracciando una linea di separazione “vantaggiosa” tra le sue sponde e quelle sicule. Quanto vantaggiosa ce lo spiega Paolo Giacalone, noto imprenditore ittico di Mazara. “Nel 2005 Gheddafi ha allargato le proprie acque territoriali portandole unilateralmente da 12 a 62 miglia. Per fare un esempio che tutti possano capire, è come se tu hai un vicino di casa che una mattina butta a terra la parete che divide i vostri appartamenti e si prende un bel pezzo di casa tua. Poi tu vai, (giustamente, ndr.) dal sindaco a reclamare e ti senti rispondere con una serie di 'boh, non lo so, ora vediamo...'".
Quelle che vengono chiamate “acque contese” sarebbero figlie di uno scippo libico, mai sanato. Per l’Italia sono acque internazionali, visto che non le ha mai riconosciute come libiche. Il nostro Paese non ha quindi una sua personale zona economica esclusiva e i suoi pescatori spesso sono costretti a violare quella altrui. C’è da dire che le soluzioni sembrano evidenti e oggi quantomai possibili.
Il governo italiano è stato da poco in Libia per siglare accordi importanti per le forniture di gas. Sarebbe stata una buona occasione per parlare anche di pesca e confini territoriali marittimi, visti i rapporti economici bilaterali in essere. “Quello dei pescatori non è un argomento interessante evidentemente – prosegue Giacalone – si ricordano di noi solo quando balziamo agli onori delle cronache per qualche fatto”.
Inoltre per tutelare la salute (e il portafoglio) del consumatore sarebbe utile l’istituzione di una DOP, operazione tentata in passato proprio dai fratelli Giacalone, la cui storia imprenditoriale è legata alle sorti del gambero dal 1929.
Il motivo di questa debacle, secondo i Giacalone, è da ricercare nella scarsa capacità degli imprenditori locali di fare “rete”, mai espressione fu più calzante. “Nel 2013 feci una riunione con tutti gli armatori di Mazara per creare un consorzio - ci riferisce Paolo Giacalone – ci lavorai più di un anno con mio fratello, creando un vero e proprio disciplinare, dall’abbattimento a bordo, alla nomenclatura delle pezzature, fino alle spese che avremmo dovuto sostenere per il marketing. Sono passati quasi dieci anni e aspettiamo ancora una risposta. Giacché aspettavamo, nel 2014 siamo entrati nel mercato registrando il marchio 'Rosso di Mazara' e ci siamo dati le stesse regole che avevamo proposto per tutti. Spero ancora che qualcuno mi chiami per creare insieme un consorzio, noi siamo pronti, ma intanto per vivere bisogna pescare”.
Fonte: Repubblica.it