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06/07/2022 06:00:00

Omicidio Garofalo: trent'anni di violenze, l'ossessione tradimento, la furia omicida, la condanna

 Ventiquattro anni e sei mesi di carcere, è questa la condanna che la Corte d'Assise di Trapani, presieduta da Daniela Troya, ha inflitto a Vincenzo Frasillo per l'omicidio della moglie: Rosalia Garofalo di 54 anni. Il Pm, aveva chiesto 28 anni, ma la Corte ha riconosciuto all'imputato la semi-infermità mentale. Il delitto venne commesso nel gennaio del 2020.

La donna venne uccisa nell'abitazione della coppia di via Calypso, a Mazara. Il cadavere venne rinvenuto, dalla polizia, nella camera da letto. Massacrata di botte e colpita con oggetti contundenti, morì dopo tre giorni di agonia. A chiamare la polizia, fu il marito. A scatenare la sua furia omicida sarebbe stata l’ossessione del tradimento. “Mi tradiva con tanti”, raccontò agli investigatori.

Le furia omicida che ha portato alla morte di Rosalia Garofalo - Il processo ha accertato che Vincenzo Marcello Frasillo, consapevole delle precarie condizioni di salute della moglie a causa di un’ischemia cerebrale che l’aveva colpita nel luglio 2018, ha sottoposto Rosalia Garofalo a un prolungato pestaggio caratterizzato da una violenza inaudita. L’uomo ha infierito ripetutamente su diverse parti del corpo della donna, provocandole fratture, lesioni contusive e ferite lacero-contuse. In particolare, le ha sferrato dei pugni al viso, causandole la frattura dello zigomo sinistro e delle ossa del naso; l’ha colpita più volte nella regione lombo-sacrale, provocandole diverse fratture. L’ha colpita, inoltre alla coscia destra provocandole almeno sette lesioni contusive, al fianco destro provocandole fratture multiple scomposte ad almeno cinque costole. Le fratture alle costole hanno causato un pneumotorace che ha determinato alla donna un’insufficienza respiratoria acuta. Nonostante la sofferenza fisica causata alla Garofalo, con l’insufficienza respiratoria che avanzava, Vincenzo Marcello Frasillo non ha chiesto l’intervento dei sanitari, provocando la morte della moglie avvenuta tra le ore 12:00 e le ore 16:00 del 29 gennaio 2020, quando chiamava il numero unico delle emergenze solo alle ore 20:09. la Corte d’Assise, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, ha escluso si trattasse di reati meno gravi come l’omicidio preterintenzionale o maltrattamenti aggravati dalla morte della donna, ritenendo, invece, pienamente provato il dolo omicidiario.

Trent’anni di matrimonio, trent’anni di violenze subite - Nel corso del processo a carico di Frasillo si è accertato che - sin dall’inizio del matrimonio con Rosalia Garofalo -, la donna è stata sottoposta a continue e violenti aggressioni fisiche e verbali, ricevendo schiaffi, calci e pugni di inusitata violenza, e veniva minacciata di morte. La Garofano in questi trent’anni è stata allontanata dai suoi familiari e da ogni tipo di relazione sociale, le veniva impedito di frequentare la sua famiglia d’origine ed era costretta ad uscire di casa solo in presenza del marito; Frasillo non è stato da sostegno né morale né economico per al donna, non solo per tutta la durata del matrimonio, ma anche dopo il luglio 2018 quando la donna fu colpita da un’ischemia cerebrale che non le permetteva più di camminare e di muoversi normalmente, senza accompagnarla nelle strutture sanitarie o in visita da specialisti delle cui cure aveva bisogno.

Rosalia Garofalo trattata come una schiava - Sin dai primi anni del matrimonio, avvenuto nel 1990, Frasillo trattava la propria moglie non come una compagna di vita da amare e rispettare, ma come uno strumento di soddisfacimento delle proprie pretese e dei propri bisogni: non una persona, ma una schiava ( così dice il figlio della coppia, Matteo Frasillo). Tra le aggressioni subite, la più grave risale all’ottobre 2019, quando Rosalia Garofalo venne legata a una sedia e picchiata con un cavo elettrico. In quell’occasione riuscì a fuggire dall’abitazione solo dopo due giorni e solo perché il marito si era addormentato. Trovata per strada dal fratello Antonino, fu accompagnata in ospedale per farsi curare le lesioni provocate dal pestaggio del marito.

Tre “inutili” denunce della donna – Sono tre le denunce rimaste “inutili” da parte di Rosalia Garofalo. La prima nel 2017, poi nell’aprile 2019 ed ancora nell’ottobre 2019. La Garofalo denunciava il marito per maltrattamenti in famiglia, salvo poi riconciliarsi e ritirare la querela. Nel dibattimento è emerso che in tutte e tre le occasioni, davanti alle violente aggressioni fisiche e morali subite per mano del marito, Rosalia in un primo momento era convinta di lasciarlo definitivamente e con un grande atto di forza aveva abbandonato la casa che tante volte l’aveva vista soffrire, recandosi da chi poteva aiutarla: i medici, gli assistenti sociali e le forze dell’ordine. In tutte e tre le occasioni, però,Vincenzo Frasillo non si rassegnava, cercava ossessivamente la moglie e, una volta che riusciva a mettersi in contatto con lei, riusciva a persuaderla e a manipolarla, con complimenti, dichiarazioni d’amore e improbabili promesse di cambiamento. A quel punto Rosalia Garofalo cedeva e tornava a vivere con il marito.

La Corte ha riconosciuto a Frasillo un vizio parziale di mente - Vincenzo Frasillo è stato ritenuto colpevole per reati che prevedono la condanna all’ergastolo. Nel corso del giudizio il perito nominato dalla Corte d’Assise di Trapani ha riconosciuto l’imputato affetto da un vizio parziale di mente, derivante da una patologia psichiatrica. In particolare, secondo il perito, l’imputato avrebbe dato inizio all’aggressione ai danni della moglie a causa di un disturbo delirante di gelosia, un disturbo psicotico caratterizzato da convinzioni deliranti costanti e pervasive, per effetto delle quali il soggetto che ne è affetto ha la convinzione irremovibile che il proprio partner sia infedele senza avere  prove che possano sostenere la sua credenza. In ogni caso, secondo il perito, pur avendo agito in preda a un disturbo delirante, la capacità di intendere e di volere non può ritenersi integralmente esclusa poiché l’imputato, nel corso del pestaggio mortale, era comunque consapevole dell’efferatezza delle sue azioni, della condizione di disabilità e inerzia della vittima e delle sofferenze fisiche provocate a quest’ultima.