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07/10/2022 06:00:00

Salvini vuole tornare a fare il ministro. Memorandum sui danni che ha fatto 

In Francia sono le langues de bois, il politichese, quell’argomentazione che è stereotipo e che, quindi, finisce per tradire anche se stessa. Matteo Salvini e Giorgia Meloni l’hanno capito bene, sin dall’inizio. Ne hanno fatto buon uso, abuso e hanno vinto, in ogni caso, apparendo come innovatori agli occhi dei più. Che hanno deciso di premiarli, affidando loro la gestione del nostro Paese. Forse, e purtroppo.

Lega (Nord), un partito dalla visione e da un programma chiari sin del nome. Nato al Nord e per il Nord, divisivo e dividente. Frammentario, tra un Settentrione evoluto e un Meridione da opprimere. Da “Prima il Nord” a “Lega lombarda/Liga Veneta”, “Secessione” e, ancora, “Indipendenza della Padania”, quest’ultima asse strategico e obiettivo finale del partito, oggi, di Salvini.

D’altronde, lo Statuto del partito “Lega Nord per l’indipendenza della Padania”, in vigore dal 2015, parla chiaro già dal primo articolo: si tratta di un movimento politico confederale costituito in forma di associazione non riconosciuta e che ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici, oltre al suo riconoscimento internazionale come Repubblica Federale indipendente e sovrana. Diventa evidente, dunque, come in un Paese dalla memoria giusta, non sarebbe bastato togliere “Nord” dal nome per spacciarsi come nazionalizzati. Ma non è il caso italiano, dove Salvini, a breve, potrebbe ricoprire, per la seconda volta, la carica di Ministro dell’Interno.

Fratelli d’Italia, esaltato e strumentalizzato poiché unico partito italiano con una presenza femminile a capo, in un territorio persuaso dal fatto che ciò possa bastare per renderlo un partito fatto dalle donne, per le donne. Non è così e non può essere così se quella presenza non fa altro che supportare e rafforzare il sistema patriarcale che dovrebbe lottare.

E pensare che nel 1994, durante il Congresso della Lega Nord, Umberto Bossi urlava “mai! Maaai! Mai!”, parlando del Msi.

Era solo il 17 ottobre 2012 quando, dall’account Facebook di Matteo Salvini, si poteva leggere che dire “prima il Nord” non è razzista, anzi, “ma per piasè, i razzisti sono coloro che da decenni campano come parassiti sulle spalle altrui”. Sono bastati pochi anni perché allo stesso venisse affidato il Ministero dell’Interno. Ancora meno, poi, sono quelli passati dopo questa riprovevole esperienza che potrebbe ripetersi, oggi.

Tra condanne, menzogne e strumentalizzazione delle debolezze altrui come base per un’eterna campagna elettorale (anche ben riuscita), nel 2018, Giancarlo Giorgetti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, confermava come Matteo Salvini l’avesse “sparata grossa” quando aveva “promesso il rimpatrio di 500mila clandestini”.

Una non politica finalizzata a cavalcare l’onda dell’immigrazione come pericolo costante e unico (prima, lo era stato il Meridione) e, dunque, fatta di atti volti a peggiorare vite umane già in condizioni non umane. Il suo governo al Consiglio europeo del giugno 2019 aveva creato le condizioni per una mancata modifica del Trattato di Dublino, secondo il quale il primo paese di accesso deve essere quello in cui il migrante presenta la richiesta d’asilo. In questo modo, aveva accettato il principio imposto dai Paesi di Visegrád in quel Consiglio, per cui ogni modifica del trattato, da quel momento, sarebbe stata decisa dai Paesi dell’UE all’unanimità.

Inutile, per l’allora Ministro, era considerata la missione europea Sophia, di contrasto al traffico di esseri umani nel Mediterraneo ma che, secondo lui, aveva “come ragione di vita che tutti gli immigrati soccorsi vengano fatti sbarcare solo in Italia”. Il mandato della suddetta missione, in realtà, mirava alla lotta agli scafisti, ai trafficanti d’armi e all’addestramento della Guardia Costiera libica per occuparsi di come governare i flussi partiti proprio dalla Libia.

Non solo. In campagna elettorale, promette 42 milioni per il primo decreto sicurezza ma ne stanzia, di fatto, 3. E, ancora, 500mila erano gli irregolari che aveva promesso avrebbe mandato indietro in poco tempo a fronte dei realistici 70 anni necessari. Ne avrebbe fatto diminuire il numero, diceva, ma con il suo Decreto Sicurezza i risultati sono stati ben diversi. Secondo le proiezioni ISPI, infatti, quel decreto avrebbe portato il numero degli stessi da 500mila a 620mila. La Corte Costituzionale, dunque, il 9 luglio 2020 ha dichiarato l’incostituzionalità del primo Decreto Sicurezza, per violazione dell’articolo 3 della Costituzione. Si è trattato, quindi, di leggi controproducenti ma anche ai limiti della realtà giuridica. Con le sue minacce di chiusura a scapito dell’umana e umanizzante solidarietà, inoltre, non ha fatto altro che rendere più difficile la creazione di un fronte comune europeo per una regolarizzazione dell’immigrazione, dignitosa e giusta.

In un anno, Matteo Salvini ha partecipato a una sola riunione ai vertici dei ministri dell’Interno europei. Disertando, a Bruxelles, 5 dei 6 Consigli Giustizia e Affari Interni, ad esempio, non ha mai cambiato un solo trattato in Europa, a cui più volte ha lasciato partecipasse alle sedute il suo vice, Nicola Molteni. Lui che, in assenza di valide argomentazioni e, quindi, per necessità, è stato un attento storico dell’assenteismo altrui. Mai del proprio. Nei primi quattro mesi e mezzo del 2019, Salvini è stato presente al ministero solo 12 giorni pieni. Nel mentre, un tour fatto di 211 tappe, con aerei ed elicotteri della Polizia, pronti ai suoi spostamenti. Una latitanza che l’ha visto fuori dai luoghi istituzionali 95 giorni su 134, con un tasso di assenteismo del 70%, tra ospitate a Saloni, sagre, comizi e fiere.

Il Ministro dell’Interno, l’unico a poter firmare l’autorizzazione a intercettazioni preventive in caso di indagini di mafia e terrorismo. Il solo a poter usare, per ragioni di sicurezza, la linea telefonica interna e criptata, e che collega il suo ufficio a quello del premier e dei vertici dei servizi segreti. Sicuramente un ministro dell’Interno non ha l’obbligo di permanente presenza in ufficio, ma, altrettanto sicuramente, ha quello di recarsi in loco quando richiesto dalla sicurezza pubblica, dato il suo ruolo di testimone primo della presenza dello Stato.

In ogni modo ha cercato di boicottare il diritto del mare giocando con le vite di esseri umani. Come quando ha ammesso di aver provocato il blocco in mare di una nave della Guardia Costiera, poi divenuto caso Diciotti, per “verificare la possibilità di un’equa ripartizione tra i paesi dell’UE degli immigrati a bordo della nave Diciotti e questo obiettivo emerge con chiarezza dalle conclusioni del Consiglio europeo del 28 giugno del 2018”, come ha scritto Salvini nella difesa del processo a suo carico, con conseguente ammissione della strumentalizzazione di persone, solo per trattare con Bruxelles.

“Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio e i passeggeri, presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizione di pericolo”. In questi termini, Sergio Mattarella aveva manifestato il suo dissenso alle politiche migratorie dell’ex, forse futuro, ministro.  

GIORGIA CECCA