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09/10/2022 06:00:00

Quando il fotografo di Marilyn volle andare in Via D'Amelio 

 Nel giro di rassegna stampa che faccio al mattino una nota Ansa: “ 3 ottobre, è morto Douglas Kirkland”. Fotografò Marilyn Monroe, credo sia stato l’ultimo a farlo; fotografò il cinema le dive, fissò il bello a suo modo.

Lo invitai a Palermo nel 2001 per una personale che fu ospitata al Loggiato San Bartolomeo (complice una Provincia Regionale di Palermo decisamente dinamica sul fronte cultura in quel tempo) e conobbi lui, sua moglie Francoise e la loro umanità. Le giornate prima dell’inaugurazione un tempo lento scandito da aneddoti e curiosità e una sera a cena mi chiese di andare in un posto a Palermo, in via D’Amelio.

L’eco delle stragi era arrivato ovunque nel 1992 e con un misto di stupore e sorpresa (miei) salimmo in macchina e andammo; era tardi, credo oltre mezzanotte e entrammo in questa strada chiusa - lo spartitraffico in mezzo e il silenzio. Scesero dalla macchina, lui se ne andò da solo e girò a lungo fermandosi poi davanti alla lapide. Silenzio al silenzio. Mi chiese alcune cose, poi riaccompagnai lui e sua moglie in albergo.

Il giorno dopo, stavamo definendo l’allestimento negli ultimi dettagli prima della prima alla Città - questa mostra era considerata giustamente un grande evento, l’autore-personaggio il luogo i racconti fotografici e lui mi prese da parte e andammo sulla terrazza del Loggiato.

Douglas che aveva fotografato fino ad allora praticamente tutto il cinema le donne e uomini protagonisti di film leggendari, era inquieto a quanto aveva visto la sera prima: una strada una teoria di palazzi a destra e a sinistra, tutto in ordine, ma lui aveva negli occhi le fotografie del luglio 1992 e - davanti a quel panorama incredibile che sono i tetti di Palermo, mi parlava di sensazioni distopiche di un luogo anni luce dalla sua realtà americana. Eppure, cosa che mi colpì, mi raccontava di sensazioni non buone che aveva provato: registrai forse con distrazione questa sua affermazione, preso comunque da altro che sarebbe accaduto poche ore dopo con l’inaugurazione della mostra.

Distopia e Utopia.

Quanto sopra è un pezzo del mio vissuto, nel 2001 erano passati già nove anni da Capaci e Via D’Amelio, e Palermo si era rialzata con enorme fatica, i movimenti antimafia solidi e propositivi con progettualità che nel tempo avevano coinvolto scuole prioritariamente e poi pezzi importanti della società. Vivevo quella Città e respiravo già da un po’ il desiderio di normalità. Un tempo utopico, pieno di visioni future.

L’altra sera in tv dalla Gruber su la7, in chiusura di conversazione con Valter Veltroni alla domanda della giornalista su un suo auspicio - dopo un lungo e argomentato dibattito sul PD la sinistra il campo largo e la fisica quantistica della mia cara sinistra - lo ammetto ero distratto e l’ex sindaco di Roma ha in qualche modo disorientato gli ospiti “non si parla più di mafia. E’ sparita dal dibattito, dai giornali, non è più recepita come una emergenza nazionale”.

Nel trentennale appena trascorso, la mia sensazione è che abbiamo assistito quasi a dei festeggiamenti - ho visto cose imbarazzanti questa estate - e riflettendo con Piero Melati (già giornalista de L’Ora di Palermo e intellettuale scomodo e spiazzante nelle sue analisi sul tema) davanti ad un caffè concordavamo che oggi forse il dibattito serio andrebbe fatto su cosa è stata l’Antimafia in questo tempo. Giacomo Di Girolamo per i tipi del Saggiatore è stato spietato col saggio Contro l’Antimafia, e sentire un politico importante che avverte pesante l’assenza o peggio la dipartita del tema mafia dall’agenda dei partiti tutti ( o quasi), ti dà netta la sensazione che sia quella cosa lì - che noia parlarne, ancora malaffare, ancora riflessioni - e se c’è stato un tempo in cui all’utopia sarebbe seguito un tempo di rinascita, quella riflessioni di Kirkland e come sillabò il termine distopia, mi fa sorgere quasi la certezza che noi i conti con quella storia non li abbiamo mai voluti chiudere.

Io torno quasi con noia per alcuni, al tema della Cultura come forma necessaria di crescita obbligatoria dal basso e non solo, come nutrimento normale per la formazione di un cittadino consapevole, leggere che nel mio territorio nel 2022 ci possano essere sacche di analfabetismo (!!), o peggio di ereditarietà della povertà educativa (rapporti Istat e Save the Children del 2021) e mi domando drammaticamente che società stiamo vivendo? Che futuro attende queste generazioni di studenti, dove le vittime di quelle stragi sono storie lontane in tutti i sensi. Che narrazione c’è stata? Forse è il caso di rivedere qualcosa andando in profondità?

Il mio Liceo a Roma è stato il Pilo Albertelli, e la prima lezione entrato al ginnasio fu davanti al busto in bronzo di questo professore, prelevato dalla polizia fascista a scuola, torturato in Via Tasso e ucciso alle Fosse Ardeatine (avevano terminato gli ebrei, gli zingari, e passarono a chi non la pensava come loro). Io avevo quattordici anni e la lezione, pardon la narrazione arrivò secca precisa puntuale.

Che sia un problema di narrazione ancora oggi a trattare questo pezzo di Italia? Che spaventi affrontare trent’anni passati e magari fare autocritica ove serva? La politica, la parte sana di imprenditoria, la Scuola - che io considero l’ultimo vero pezzo di Stato nei territori più lontani - anche alla luce di queste nuove elezioni, colgano l’attimo (che non sia fuggente) di riflettere e guardare per una volta indietro. Un mio fraterno amico - imprenditore - mi ricorda sempre che lui la lotta alla mafia la percorre quotidianamente, e da sempre nella correttezza dei rapporti col suo personale e i contratti di lavoro, la normalità. Possibile che tutti ci siamo abituati a vivere una anormalità normale? Parrebbe così. Ma conosco moltissimi che nel silenzio del proprio fare, esercitano azioni positive, bene: fatelo sapere fatelo rumorosamente ne abbiamo la necessità. Sarà una narrazione diversa, aderente al quotidiano e lontana da esercizi di stile.

Mi perdo nei ricordi, Douglas che racconta la sua uscita dallo Chateau Marmont per tornare da Marilyn a sottoporle i contatti delle fotografie che lo resero immortale, in testa mentre viaggiava in macchina un pezzo di Frank Sinatra.

Io che mi barcameno, stufo di vivere scansando iceberg

giuseppe prode