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31/03/2023 06:04:00

Chiedo scusa, lettore, se ti parlo di me

 Chiedo scusa, lettore, se ti parlo di me. La cosa, non lo nascondo, mi mette anche un certo imbarazzo. Un giornalista dà notizie che riguardano le vite degli altri, mica la sua. Io, poi, della mia vita non ho mai voluto parlare, soprattutto delle conseguenze accidentali che comporta fare il mestiere che so fare nella mia terra, occuparsi di criminalità organizzata vecchia e nuova, credere ancora nel giornalismo che va dentro le cose, indaga. Non ho mai raccontato di minacce ed intimidazioni di vario tipo, degli insulti, delle querele temerarie, delle decine di richieste di risarcimento che mi piovono addosso. Mi dà anzi fastidio quando mi presentano con qualche etichetta come il “giornalista antimafia”, il giornalista “costantemente minacciato” ed altro. Sono un giornalista, uno dei tanti, e vorrei che la curiosità non fosse su di me e la mia vita, ma sulle cose che scrivo, quello si.

Chiedo scusa lettore, dunque, se ti parlo di me. E non è per artificio retorico. Qui ti devo dire che faccio questo mestiere da quando ero ragazzino, e le minacce ricevute, ormai, quasi non me le segno più. Ricordo la prima, però: un signore che, in una giornata piovosa, mi aspettò sotto la redazione per sbiascicarmi qualcosa su alcuni nostri servizi in radio (Tp24 doveva ancora nascere) sui rapporti tra mafia e politica nella mia città, Marsala, invitandomi, diciamo, a cambiare argomento. Aveva solide convinzioni, e mi disse, tra le altre cose: “A momenti nesciuno tutti”, con riferimento ad alcuni noti mafiosi locali in procinto di finire la loro pena ed uscire, pertanto, dalle patrie galere. Pioveva, a dirotto. Lui era bagnato fradicio, io per starlo ad ascoltare pure (ecco, lettore, se dovessi parlare di me un giorno, comincerei da un inventario di tutti gli ombrelli, ed i cappelli, persi nella mia vita, tant’è che ad un certo punto ho rinunciato ad usarli. Piove. Mi bagno). Pensavo a queste persone che “uscivano”, non colsi subito la sfumatura, ero ancora ingenuo. Gli risposi: “Miii… con questo tempo!”. Lui mi guardò meravigliato, sospeso per un attimo a contemplare la mia imbecillità - magari poteva prenderla per coraggio, non so. Io approfittai della sua incertezza per salutare ed andare. Quando lo incrociai in strada di nuovo, qualche tempo dopo, un amico me lo indicò come un consigliori della famiglia mafiosa locale. Così, realizzai. Con i miei tempi.

Non si dimentica la prima minaccia, non si dimentica la prima querela. Ad un certo punto, poi, tutto questo diventa routine. Anche gli insulti, scivolano via. Una sorta di rumore di fondo mentre sei impegnato a fare altro. O magari è l’ “altro” che diventa un intermezzo tra una querela e una minaccia.

***

Chiedo scusa, lettore, se non ti parlo di un fatto di attualità, ma ti devo portare indietro nel tempo, di qualche anno. Era il 2018. Era estate, lo ricordo bene, e noi ci occupavamo, tanto per cambiare, del traffico di droga nelle città della nostra provincia. E’ straziante vedere giovani trasformati in zombie dal crack, e lo scriveremo e diremo sempre, per noi gli spacciatori sono veri e propri mercanti di morte. Se hai seguito le nostre inchieste, in questi ultimi anni, saprai che ci abbiamo messo la faccia, tanto per cambiare, e abbiamo raccontato la rete dello spaccio che si muove tra Mazara, Marsala e Trapani, in particolare nei quartieri di Sappusi (qui uno dei nostri reportage) Amabilina, e Via Istria a Marsala, e a San Giuliano, a Trapani. Del quartiere di San Giuliano, in particolare abbiamo raccontato davvero tanto, ad esempio il caso più unico che raro di un pregiudicato capobastone che sposa la causa di un candidato Sindaco, fa eleggere un consigliere comunale, ad Erice, e lo fa dimettere perché lo trova “inadeguato”. Devo dire che la storia di per sé è incredibile, certo, ma ancora più incredibile è che, dopo il nostro racconto non sia accaduto nulla.

Ci occupiamo molto di Trapani, da quando abbiamo deciso di aprire una redazione anche lì, vicino la stazione. Ti devo raccontare un episodio, sempre di quel periodo lì, accaduto dopo le nostre prime inchieste, quando facemmo addirittura il nome del capomafia reggente di Trapani, Franco Orlando “quello del bar”, ben prima che lo arrestassero. E un giorno, mi ricordo, ero da solo, nella nuova redazione, e bussa alla porta un ragazzotto. Io esco, magari ha bisogno di qualche informazione, penso, deve dirmi qualcosa. E quello mi fa, in siciliano stretto: “Lei è Di Girolamo?”. Si, rispondo. “Mi hanno dato 200 euro per darle fuoco alla macchina, ma se lei mi da di più me ne vado”. Lo guardo, e ancora una volta do una risposta ingenua, ma sincera, e per lui spiazzante: “Ma io sono venuto con il treno”.  E devo dirti, caro lettore, che ero rimasto deluso quasi quanto lui, che ha girato i tacchi e, frastornato, se ne è andato. E la prima cosa che ho pensato, quando sono rimasto solo, davvero, è stata: “Ma non è che questo dà fuoco al treno, adesso?”. Ma lui si era proprio dileguato, ed alla stazione, poco dopo, tutto era tranquillo.

Non ho denunciato, né quella volta, né le precedenti, non denuncio quasi mai, è una perdita di tempo, in molti casi, serve solo a fare sentire ancora più forte il senso della mia solitudine.

Poi però accadde quella cosa, a Luglio, che non fu più grave delle altre, ma fu la classica traboccante goccia dell’ancora più classico vaso. Ed era morto un ragazzo, a Marsala, in un incidente, e noi avevamo dato la notizia. Era un pregiudicato, di un giro che conoscevamo. E i parenti l’avevano presa male. Pubblicata la notizia, cominciano gli insulti, sui social, gli avvertimenti. Finchè uno ci scrive: “Vi faccio passare cose che nella vita non avete visto mai” E un sodale gli risponde: “A questi di Tp24 mi sa che bisogna andarci in redazione”. Ho visto in questo scambio di messaggi come qualcosa, un codice. Ho avuto paura. Ho detto: questi vengono davvero in redazione. Prima cosa, ho mandato tutti a casa. Seconda cosa, sono andato a fare denuncia.

Sono andato dai Carabinieri e ho raccontato cosa era successo. Sono partite, ovviamente, le indagini, che non sono state velocissime. Benché io avessi dato informazioni dettagliate sui miei “minacciatori”, i Carabinieri, che indagavano su delega della Procura, volevano vederci chiaro. E’ una cosa che capita di frequente, quando si denuncia qualcuno per degli insulti o, come nel mio caso, per delle minacce sui social. In pratica, chi fa le “indagini”, si chiede: ma è sicuro che il profilo di Mario Rossi sia davvero di Mario Rossi? Negli anni, infatti, in nome della libertà di internet, abbiamo consentito che sui social ognuno si possa spacciare per chi vuole, creare profili fake, e dire quello che vuole, senza filtro. Nel mio caso i due avevano proprio dei nomi di battaglia, ma a rivelare che erano loro erano le loro foto profilo (uguali alle loro foto segnaletiche, peraltro). Ma non bastava. Cosi i Carabinieri, ad un certo punto, avevano scritto a Palo Alto, in California, alla sede legale di Facebook proprio, per avere delucidazioni. Stranamente, Facebook / Meta non aveva risposto.  Com’è e come non è, di fronte alle mie pressioni, diedero per assodata l’identificazione dei due indagati. Il più era fatto. Anche se, nel frattempo,  erano passati già tre anni.

I due vengono rinviati a giudizio per minacce e tentata violenza privata.

Si arriva al processo, davanti al giudice monocratico, al Tribunale di Marsala. Gli imputati non sembrano mostrare alcun segno di pentimento, anzi, quasi non gliene frega nulla. Quando vengo sentito come persona offesa, la domanda del giudice non mi fa presagire nulla di buono: “Ma i due imputati - mi chiede - si fermarono a scrivere quelle cose o fecero altro? ”. “No - rispondo con tutta la calma possibile - se no la violenza non sarebbe "tentata”.

Finisce con la sentenza, e la sentenza è l’assoluzione, come abbiamo raccontato in queste pagine. Se avete dei conti da regolare con noi potete venire a prenderci in redazione, in pratica. Si può. 

Pazienza. Però,  adesso, perché ti scrivo di nuovo della vicenda, e te ne parlo in prima persona? Perché sono state depositate le motivazioni. E io me lo ero scordato, preso dalla cronaca dell'arresto di Matteo Messina Denaro e di tutto quello che sta succedendo.

Adesso sono andato a ritirarle. Ero curioso di leggerle. E c’è un passaggio, caro lettore, che mi ferisce un po’, devo essere sincero,
Innanzitutto, l’attività investigativa è “deficiente e limitata” scrive il giudice, nonostante uno degli imputati abbia ammesso in udienza la paternità del messaggio di minacce. perché c’è un “inesistente accertamento informatico”. Anche se l’imputato dice che è stato lui. Ma i carabinieri non sono riusciti a dimostrarlo.

E vabbè. Ma poi il giudice sale di livello. Perché , scrive, che ritiene che la frase. “A questi di Tp24 mi sa che bisogna andarci nello studio …”, non è di per se minacciosa, anzi lui ci vede la “necessità di un contatto”. E poi, infine, la parte che mi ferisce di più. Scrive il giudice, infatti, che la minaccia non è seria, infine, perché Di Girolamo (cioè io) è “abituato a ricevere insulti e minacce quasi quotidiane”. Mi sta dicendo in pratica che è un po’ come se il muratore torna a casa e si lamenta del mal di schiena. Fa parte del mestiere, se non ti andava di soffrire di mal di schiena facevi il contabile. 

Ecco perché ti parlo di me, caro lettore, per dirti che da oggi smetto di denunciare. Seguo il consiglio del giudice. Incasso insulti e minacce senza lamentarmi, perché fa parte del mestiere. E devo ricordarmi che ci sono abituato. 

Non denuncio, non denunceremo più. Neanche queste minacce qui, che ti faccio ascoltare. 

 

Così come, se hai notato,  abbiamo smesso di fare i nomi di molti arrestati e indagati anche nelle operazioni antimafia perché non ce li dicono più. Vale, infatti, la presunzione di innocenza per tutti, pure per Messina Denaro. Si è deciso che viene prima del diritto di sapere.

Smetto dunque di denunciare. Non posso decidere di smettere di essere denunciato. Dalla diffamazione alla violazione della privacy, fino al procurato allarme, sono indagato (e a volte imputato) per le accuse più diverse, costretto ad umilianti interrogatori di avvocati ed anche di Pm, come quella giudice che, in un processo, mi chiedeva la fonte di una notizia. E di fronte al mio gentile diniego, appellandomi alla riservatezza delle mie fonti, ha cominciato a dirmi: “Ma il lo faccio per lei! Ci dica chi glielo ha detto! Si liberi! Si liberi”. No, che non mi libero, avrei voluto dire. E’ una specie di ergastolo che sconto vivendo, questo mio mestiere qua. L’ho scritto anche di recente.

Mi invitano spesso a parlare dello stato del giornalismo in Italia, soprattutto di quello che racconta i territorio, di proposte di leggi "bavaglio" che vorrebbero limitare la libertà di stampa. Mi sembra sempre tutto un po' naif. Si, certo, la politica ci prova e ci proverà. Ma il vero pericolo e altro. Perchè, giorno dopo giorno, umiliazione dopo umiliazione , caro lettore, noi giornalisti di questo passo rinunceremo a raccontare quello che accade. Il bavaglio ce lo stiamo mettendo da soli. Non è necessario scomodare il Parlamento.

Quando sono in giro per l'Italia e mi chiedono: "Ma chi te lo fa fare?", io rispondo sempre: "Perchè lo so fare". Nel senso che, davvero, non so fare altro nella vita, se non il giornalista, e cerco di fare questo mestiere. Ma a poco a poco anche io mi sento vicino ad un punto di rottura. "Ma chi te lo fa fare?" mi chiederanno. E io risponderò: "Avete ragione, non lo voglio fare più".  

Giacomo Di Girolamo