Qualche giorno addietro, alla Fondazione Basso a Roma, ad ascoltare storie e racconti di Filippo Landi - storico inviato e corrispondente RAI da teatri di guerra e non solo_Il Cairo e Gerusalemme, i Balcani e Pechino - la voce che per molti anni ha raccontato storie drammatiche e geografiche; poi a chiusura di un pomeriggio ricco di suggestioni attorno al suo libro Il tempo che rimane (hopefulmonster editore) Monsignor Matteo Zuppi è intervenuto sottolineando come l’arte dell’incontro possa essere dirimente in una vita vissuta. L’incontro è curiosità, è intimità dell’altro, è la vita che ognuno di noi ha la ventura di costruire.
Il mattino dopo - sabato 7 ottobre - i confini tra Israele e la striscia di Gaza violati dai miliziani di Hamas, notizie frammentate all’inizio poi un quadro via via più chiaro e terribile oggi dopo una settimana.
Se la vita è l’arte degli incontri (o quasi), a marzo 2021 conobbi telefonicamente Emanuele Gerosa - regista documentarista - e lo invitai al Festival a raccontare la sua ultima opera One more jump (su Raiplay la versione tradotta ), il tempo vissuto a Gaza e dintorni con i ragazzi del Gaza Parkour Team.
Venne a Marsala a fine estate e nei mesi prima scrissi varie lettere per invitare i due protagonisti del film che, dopo un viaggio abbastanza articolato e lungo, arrivarono da noi.
Ho rivisto in questi giorni il documentario, e nella testa le parole delle corrispondenze di Paola Caridi per varie testate e tv (Gaza vive da diciassette anni un assedio durissimo) pensando a Emanuele e alla sua esperienza umana mentre girava il film.
Emanuele intanto grazie per aver accettato l’invito a rispondere ad alcune domande, hai vissuto nella striscia di Gaza per il tuo film e come ti ho accennato al telefono, rivedendo in questi giorni fotografie testimonianze di esperti della materia ripenso ad una incisione di Goya “ Il sonno della ragione genera mostri”, un tuo pensiero su questa settimana appena trascorsa.
Grazie a te Giuseppe per l’invito. Nel tempo in cui stiamo vivendo e ancora di più dopo gli eventi di questa settimana, sembra esserci una polarizzazione pressoché totale del pensiero. Per questa ragione, anch’io ho ascoltato con grande attenzione le parole di Paola Caridi, di cui ho un’enorme stima. Io vorrei dire che in un momento come questo ritengo sia fondamentale ascoltare voci diverse e cercare di comprendere le ragioni che hanno portato a questi tragici eventi, non limitarsi a giudicarli come accadimenti svincolati dalla storia. Se posso aggiungere qualcosa, vorrei anche dire che è disarmante e spaventosa la diffusa accondiscendenza a rispondere ad un atto estremamente violento, con la rappresaglia, la vendetta ed un uso ancora più terribile della violenza. Come può la ricerca di giustizia permettere lo sterminio di migliaia di civili innocenti?
Siamo nel 2023, sembra da più parti che proprio quando il dialogo per il processo di pace sia ad un passo, si ha come l’impressione che questa parola non debba avere regno in quella terra. Perché?
Sicuramente questo è uno dei momenti più bui e terribili che quella terra abbia mai attraversato, ma credo che per Gaza e i suoi abitanti, in questi quasi vent’anni di assedio, non ci sia mai stato un vero dialogo volto ad avviare un processo di pace.
Alcune scene del film raccontano di tante vite al limite dove tutto è precario, dalla mancanza di medicinali all’energia elettrica: noi in Europa forse non riusciamo neppure ad immaginarla questa dimensione, eppure in un territorio che è un terzo di Roma (in kmq) vivono oltre 2,5 mln di palestinesi. Un ricordo che non è entrato nel racconto di One more jump.
Ci sono tanti ricordi di quei giorni trascorsi a Gaza che faranno sempre parte della mia vita. Tra gli aspetti che non sono entrati nel film vorrei raccontare della generosità che caratterizza tutte le persone che ho incontrato nella Striscia e della loro curiosità di conoscere cosa ci sia fuori da quelle mura che le tengono prigioniere. Penso alla mamma di Jehad, uno dei due protagonisti del film, che ci ha ospitato nella sua casa per tutta la durata delle riprese senza permetterci mai di fare la spesa o offrire un pranzo. Penso agli amici del nostro fixer Mohamed Abu Safia o alle famiglie degli altri protagonisti del film, che ci hanno spesso invitato a mangiare con loro per capire cosa ci avesse spinto ad andare nella Striscia e come sia la vita in Europa.
Pensare ora a quelle persone, imprigionate nelle loro case, mentre tutt’intorno risuonano solo le esplosioni delle bombe e le urla di dolore, fa ancora più male.
Ultima domanda, nel 1989 cadeva il muro di Berlino e nel film c’è una scena in cui il protagonista fissa il vuoto e in fondo il Muro costruito dagli Israeliani: quale futuro si può sperare in una terra che replica storie terribili di divisioni, dai muri ai numeri tatuati sui polsi?
Quella scena in cui Jehad osserva il muro e si domanda cosa ci sia dall’altra parte, è molto significativa; quel muro infatti non crea solamente divisione, ma, cingendo la Striscia da ogni lato, la separa da tutto il resto del mondo. Se pensiamo poi che all’interno del muro vi è una sorta di “terra di nessuno” lunga circa un chilometro, nella quale nessun palestinese può addentrarsi, senza rischiare di essere colpito dal proiettile di un cecchino israeliano appostato su qualche torretta di controllo, allora abbiamo pienamente la percezione di quanto quel muro non serva solo a creare una separazione, ma soprattutto a fare di Gaza un’enorme prigione.
Dopo la mia esperienza nella Striscia di Gaza, ho sempre pensato che sia impossibile immaginare un futuro di pace e convivenza in quella terra, fino a che un popolo costringerà l’altro popolo che vi abita, a trascorrere tutta la vita in una prigione.
One more jump, un salto ancora un gesto semplice dove quei ragazzi assaporavano attimi di leggerezza tra le macerie di una prigione a cielo aperto.
Ogni violenza va condannata, sempre.
Viviamo un tempo dove realmente sembra che la ragione sia alla deriva e una testimonianza di chi ha vissuto quei luoghi raccontando, forse può essere un contributo a cercare di comprendere cosa stia accadendo dall’altra parte del Mediterraneo
Giuseppe Prode