Il silenzio al mattino presto, forse il momento della giornata dove nessuno ti rompe le scatole, scegli se il caffè lo vuoi lungo, forte anche il tempo di scegliere una tazzina, e leggi nuove così come arrivano al sabato.
E’ il giorno della settimana - forse insieme alla domenica - dove vai un po’ ovunque non cercando notizie ma prendendo quello che capita, e ieri alla seconda lettura la tazzina l’ho posata: Ivo Saglietti (foto ©Marco Arienti) è morto.
Per chi leggerà queste righe, credo sia un perfetto sconosciuto, ma Ivo è stato un giornalista-fotografo di una generazione che ha fatto la storia del giornalismo internazionale; i francesi lo definivano reporter-photograghe ma loro hanno una cultura superiore quanto al rispetto della Fotografia e al suo uso.
Ognuno di noi si forma a suo modo, leggendo guardando film, andando per musei, mostre e forse nell’immaginario nostro se agiamo in un determinato modo magari è perché prendiamo ispirazione da quelle righe di Italo Calvino, piuttosto che da una poesia di Sandro Penna o altro. La fotografia è quota parte della mia vita, e i racconti di Saglietti sono entrati nella storia con la discrezione di ha sempre cercato un istante di umanità.
“UNA FOTOGRAFIA DEVE RACCONTARE, NON EMOZIONARE. SE DOVESSIMO TENERE SOLO LE FOTO CHE EMOZIONANO OGNI FOTOGRAFO AVREBBE SOLO TRE, QUATTRO FOTOGRAFIE”.
Il Cile di Pinochet, la tratta degli schiavi partendo dal Benin e finendo ad Haiti, e poi Srebrenica. Storie che oggi necessitano di studio per capire di cosa si parli, lui lo ha fatto come pochi fotografi sanno fare “aspettando le fotografie”. Sapeva attendere, e in tempi dove questo verbo corre il rischio di essere desueto, i suoi racconti fotografici restituiscono quella dimensione.
Quando i premi avevano un valore vinse tre World Press Photo - una sorta di Premio Oscar della fotografia - ma non gli dava alcun conto, era così andava oltre.
Un umanista, un uomo colto e raffinato si dava del tu con Mario Dondero - generazioni diverse - modi simili di guardare il mondo. Un altro fotografo, morto in questa settimana strana (dopo Larry Fink e Elliot Erwitt), voce fuori dal coro in assoluto, francese di nascita, genovese in quota parte, generosissimo quando apriva la porta del suo mondo.
Nel ritratto che accompagnano queste righe c'è molto di lui, non il disincanto ma "io ho detto tutto, il mio archivio è lì per quel che può servire".
Sarebbe bello portare a scuola il suo lavoro, ai ragazzi di oggi e con le sue fotografie, Storia contemporanea e lì dal Cile a Sotto la Tenda di Abramo - che racconta quel viaggio pazzesco nei territori dove scomparve in Siria, Padre Paolo Dall’Oglio gesuita.
Mezzo secolo poco meno di racconti declinati con la fotografia, e apprezzare quel giornalismo asciutto secco: Lui mai lirico, e a questo punto mi avrebbe detto immerso nella sua costante nuvola di fumo di un’altra sigaretta “adesso basta belin“.
Lo sguardo inquieto, il suo ultimo libro pubblicato nel 2021, ma era una inquietudine addomesticata con il saper attendere La recherche patiente direbbe Le Corbusier.
“Un fotografo deve muoversi lentamente, solo così scopre, fermandosi, voltandosi, girandosi e camminando lentamente, prendendo il regionale invece che il treno veloce, l’autobus invece che il treno”.
Giuseppe Prode