Per otto anni ha vissuto a Trapani, incantata dal mare, rapita dai tramonti, deliziata dal cibo, ammaliata dalle bellezze artistiche e dai gioielli architettonici. Qui ha anche coronato il suo sogno d’amore, sposando un trapanese.
Ha, però, dovuto fare i conti con i disservizi, i problemi mai risolti a tante altre vicissitudini che affliggono la città falcata. Alla fine, stanca di lottare contro i mulini a vento, si è arresa: lascia la città. Finisce qui l'avventura trapanese per Beatriz Borges, brasiliana d'origine. Con la sua famiglia ha deciso di trasferirsi in Spagna. Prima di congedarsi, con le lacrime agli occhi, ha scritto una lunga lettera aperta che mette a nudo tutti i problemi riscontrati durante la sua permanenza a Trapani. Una denuncia. Uno sfogo. Un grido per abbattere il muro dell’indifferenza e della rassegnazione.
Ecco la sua lettera integrale.
“Comincio dall'inizio: i servizi non funzionano. Non ci si può fidare dei treni o degli autobus, l'acqua arriva gialla o nera, contaminata dal sistema fognario. Ci sono frequenti interruzioni di corrente e fidarsi di internet è un rischio da correre. I dipendenti pubblici sono in perenne pausa caffè e, quando sono alla scrivania, passano il lavoro ai colleghi più giovani a causa della loro incapacità di gestire la tecnologia. La sanità pubblica è un disastro e la maggior parte dei medici lavora solo nel privato. Per non parlare del fatto che sono quasi sempre irreperibili e, in gran parte, non aggiornati e, di conseguenza, incompetenti. La mancanza di civiltà della gente è evidente: le spiagge sono piene di plastica, di mozziconi di sigaretta, si parcheggia in doppia e addirittura tripla corsia, tutti parlano al cellulare mentre guidano, oltre ai rifiuti che sono praticamente diventati parte del paesaggio. La gente si è abituata a vivere in mezzo alle macerie - e tutti sembrano immuni dalla propria capacità di indignarsi di fronte a tanta mancanza di rispetto per i beni pubblici , culturali ed ambientali.
In questi quasi otto anni, la mia bile è salita ad ogni nuova notizia di corruzione, frode, chiusure e cancellazioni. Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la notizia che il servizio di mensa nelle scuole pubbliche non esisterà più, perché non è più incluso nel bilancio del Comune. Un servizio che in realtà è un diritto, oltre che indispensabile per consentire alle donne di lavorare. Ma a parte il fatto che qui non c'è lavoro, perché dare opportunità alle ragazze che diventano madri prima della maggiore età? Non è per mancanza di informazione, è una questione di sopravvivenza. Perché essere mamma è il modo che hanno trovato per proteggersi da molestie, abusi e stupri. Per loro, essere mamma è l'unico modo per ricevere il minimo rispetto dai compagni di scuola, dagli uomini della famiglia e dai passanti per strada. Sposarsi è ancora il modo che molte trovano per migliorare la propria vita, come se fosse il 1920, a riprova del fatto che in questa terra le donne non sono nemmeno diventate una priorità sociale per i governanti nel corso degli anni. Non ci sono progetti per loro, non c'è futuro oltre la maternità. E non me lo sono tirata fuori questa idea dalla mia fantasia, me ne sono resa conto facendo laboratori sull'uguaglianza di genere nelle scuole - un lavoro che ho fatto in un altro dei miei tentativi, vani, di trovare un'occupazione che mi aiutasse a rimanere in quest'isola.
Qui ho sperimentato per la prima volta nella mia vita cosa significa essere sfruttata. Ho lavorato con contratti precari, stagionali, indegni e persino in nero per 4 euro/ora. Sono stata umiliata e non rispettata in innumerevoli situazioni - e volevano sempre farmi stare zitta con la minaccia di perdere il "lavoro". Me ne sono andata sentendomi sprecata, spregiata, con la coda tra le gambe, mettendo in dubbio il mio valore come persona e come professionista. Qui ho letteralmente accettato qualsiasi cosa per poter sfamare i miei figli. Io, una giornalista con due lauree, due libri pubblicati, che parla correntemente quattro lingue, con innumerevoli esperienze, competenze e conoscenze. Tra l'altro, un altro schiaffo è stato il rifiuto dell'Ordine dei Giornalisti di riconoscere le mie qualifiche, peraltro già approvate dalla Spagna, e mi ha dato come unica alternativa quella di lavorare come praticante per due anni per far riconoscere la professione che già esercitavo da più di 10 anni, sia in Spagna che in Brasile. Ma per chi vive in Sicilia, a differenza del resto del mondo, tutto questo non ha importanza. Ancor meno se si è donna.
Qui la società è superficiale e le ambizioni sono piccole. I corsi di preparazione agli esami pubblici alimentano la fame di chi vede il posto fisso come un salvagente. Magari fosse così solo nelle commedie di Checco Zalone. Nel 2024, questa è la realtà più pura. È deprimente vedere persone che non hanno alcuna vocazione per l'insegnamento dedicarsi a questa professione. È ancora più deprimente sapere che i miei figli vengono educati da queste persone. Maltrattati anche, tra l'altro, perché qui si usa ancora castigare e punire, una pedagogia ad hoc.
Ma sì, la Sicilia è bella. L'aria è pulita, il mare paradisiaco, i paesaggi mozzafiato, il cibo buono, il pesce fresco, si mangia a km zero. Ma ne vale la pena? Per me, non posso più rinunciare a ciò che considero essenziale: il rispetto dell'ambiente, un'istruzione di qualità e i servizi di base in un Paese che si trova al quinto posto nella graduatoria dei 36 paesi europei per quanto riguarda le tassazioni. Chiedere condizioni di lavoro dignitose e una possibilità per le donne di fronte a un tale abbandono umano magari sarebbe chiedere troppo. Concludo che, nonostante i miei sforzi, non c'è modo di salvare le persone dalla loro stessa ignoranza. Addio, Sicilia”.