C’è un comitato di cittadini, presieduto dal parroco della Chiesa Madre di Castelvetrano don Giuseppe Undari, che ha proposto di cambiare la denominazione dell’ospedale: da “Vittorio Emanuele II” a “Fausto Mulè -Valle del Belice”.
Un’iniziativa che vedrà il coinvolgimento del consiglio comunale e forse anche dei comuni limitrofi della Valle del Belice, per onorare la memoria del dottor Mulè, venuto recentemente a mancare all’età di 98 anni, dopo aver trascorso una vita nel suo laboratorio di analisi cliniche rimasto operativo per quasi 60 anni.
Non è la prima iniziativa tesa al cambiamento del nome dell’ospedale. Ce n’è un’altra da parte del Comitato Orgoglio Castelvetranese, il cui iter è arrivato a buon punto, per cambiarlo in “Ospedale della Valle del Belice”. In qualche modo, la denominazione “Fausto Mulè – Valle del Belice” suona un po’ come una sorta di compromesso tra i due comitati.
La vita del dottor Fausto Mulè si è svolta su diversi piani. Le sue innegabili competenze e la sua professionalità erano note a tutti: era un punto di riferimento in tutta la Sicilia, per le sue capacità diagnostiche, le sue consulenze e la sua profonda empatia (spesso non faceva pagare coloro che non ne avevano le possibilità). Uno bravo e disponibile ad aiutare gli altri. Ma a Castelvetrano, negli anni ’50, la cosa poteva diventare un problema. E il problema cominciò il 9 gennaio del 1957, con l’omicidio di Francesco Craparotta e del suo amico Vito Bonanno. Il primo era il notaio più in vista di Castelvetrano, il secondo un impiegato delle imposte. Furono uccisi da un gruppo di tre, forse quattro mafiosi: un commando al quale partecipò Francesco Messina Denaro, che poi diventerà il padre di Matteo, l’ultimo latitante arrestato il 16 gennaio 2023 e morto di tumore otto mesi dopo.
Oltre a lui, a sparare c’erano certamente i fratelli della gang Messina, Giuseppe e Giovanni.
Prima di essere colpito a morte, il notaio aveva cercato di reagire, ferendo con la propria pistola Giovanni Messina alla spalla. I mafiosi sapevano che il dottor Fausto Mulè era il più bravo e per curarlo lo portarono da lui. Mulè per estrarre il proiettile avrebbe avuto bisogno di una radiografia. E siccome il miglior radiologo era Giuseppe Monti, chiesero anche a lui di intervenire.
Il Messina, conosciuto come “il mafioso dalla spalla bucata”, fu fermato tempo dopo a Genova. E nel maggio del ’57, tra i dodici arrestati dell’“Operazione Castelvetrano”, ci furono pure i due medici che l’avevano soccorso, accusati di favoreggiamento. L’Unità aveva titolato: “Noti industriali e professionisti implicati in una catena di crimini a Castelvetrano”. Nel giugno del 1956 era stato sequestrato l’imprenditore Giuseppe Taormina, erano tempi in cui la mafia sparava e minacciava chiunque si fosse messo di traverso. Come fecero con il giovane contadino Vincenzo Tilotta, proprietario di un casolare dove Giovanni Messina si era andato a rifugiare per il primo soccorso, subito dopo essere stato colpito alla spalla. I mafiosi, avendo avuto il forte sospetto che il contadino, nascosto dietro un cespuglio, avesse visto la scena dell’agguato, lo fecero sparire per sempre.
Fausto Mulè e Giuseppe Monti avrebbero dovuto denunciare? Negli anni ’50 sarebbe stata una condanna a morte certa. E dopo questa terribile esperienza, seguì un periodo buio fatto di udienze, ansie e viaggi a Palermo che, per fortuna, finì con un’assoluzione piena.
Oggi è difficile dire se davvero il dottor Mulè sarebbe contento dell’intestazione dell’ospedale di Castelvetrano. A diverse persone che gli chiedevano della sua esperienza ospedaliera, lui ha sempre risposto di non essere stato molto soddisfatto e di aver scelto l’attività privata.
Inoltre, non possiamo non condannare quel titolo de L’Unità che l’ha considerato “implicato in una catena di crimini”, come se avesse avuto un qualche ruolo in quegli omicidi. Oltre che un valente scienziato era anche una brava persona. E sì, intitolargli l’ospedale, una strada, una piazza, una scuola, se lo meriterebbe eccome.
Egidio Morici