Quando sono all’estero per parlare di criminalità organizzata, in qualche conferenza o a un forum, capita spesso che qualcuno degli altri relatori mi faccia una battuta del tipo: lei certo che ne capisce di mafia, è italiano. La mafia l’avete inventata voi. All’inizio la cosa mi dava un po’ fastidio, ma poi ho imparato a rispondere dicendo che sì, è vero, la mafia l’abbiamo inventata noi. Ma anche l’antimafia è una nostra specialità.
Oggi l’Italia è un esempio per tutto il mondo, nella lotta alla mafia. Siamo uno dei pochi Paesi, innanzitutto, dove il reato di mafia esiste, è definito dal codice penale, ed è punito severamente. Abbiamo un apparato investigativo dedicato, la Dia. Siamo quelli del carcere duro. E confischiamo i beni non solo ai mafiosi, ma anche agli indiziati di mafia. E inoltre, se c’è la presenza della mafia in un comune, arrivano la sospensione delle regole democratiche e lo “scioglimento”.
Quella dello scioglimento di un comune per mafia da parte del ministero dell’Interno è una delle misure più aspre previste dal nostro ordinamento: il potere amministrativo che cancella un organo democratico, per cause eccezionali.
Comincia tutto con l’invio degli ispettori, solitamente dei Prefetti, che relazionano al ministero, dopo quarantacinque giorni. In caso di scioglimento, che avviene con un provvedimento del Presidente della Repubblica, su proposta del ministero dell’Interno, decadono gli organi politici – sindaco, giunta e consiglio – e arrivano tre commissari prefettizi per diciotto mesi, per bonificare la pubblica amministrazione dalle infiltrazioni mafiose.
Dal 1991 ad oggi sono stati sciolti per mafia più di duecentocinquanta comuni. Si va da St. Pierre, vicino Aosta, a Bardonecchia, il primo comune a subire questo provvedimento in Lombardia, fino a tanti comuni del Sud Italia, Calabria e Sicilia soprattutto.
Il prossimo comune potrebbe essere non un paesino dell’Aspromonte o qualche borgata vicino Palermo, ma addirittura Bari.
Ma quali sono i presupposti per lo scioglimento? Qui c’è molta confusione. La legge prevede infatti che ci debbano essere «concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare degli amministratori» o che ci sia un condizionamento «della volontà degli organi elettivi ed amministrativi».
E, come sempre accade, nell’incertezza della formula, si annida l’interpretazione. I casi sono diversi. Ci sono comuni che non sono stati sciolti perché gli episodi contestati non erano considerati significativi; altri, invece, sciolti per rapporti di parentela tra politici e membri del clan.
Borgetto, in provincia di Palermo, è stato sciolto perché i clan avevano sostenuto alcuni politici in cambio dell’affidamento di alcuni servizi. Brescello, in Emilia Romagna, fu sciolto, nel 2016, anche perché il sindaco aveva definito, nel corso di un’intervista, «una persona educata» il boss della ’ndrina locale, dimostrando, si legge nella relazione prefettizia «scarsa attenzione» e «insensibilità». A proposito, quello che si può leggere, quando viene sciolto un comune è poca cosa: è la breve relazione che accompagna il decreto del Presidente della Repubblica. Tutto il resto invece è segretato. Il più delle volte un sindaco si ritrova un comune sciolto per mafia e non sa bene perché.
Lo scioglimento è uno stigma. Per la città, per la sua classe politica, per tutti. Il tuo comune è sciolto per mafia. E anche anni dopo questa circostanza peserà nelle cronache, nel racconto degli inviati, in ogni dibattito pubblico.
Negli anni anche questo strumento si è deformato. Di interpretazione in interpretazione (un po’ come avvenuto con un altro mostro giuridico: il concorso esterno in associazione mafiosa, o come la madre di tutte le battaglie, la famigerata “trattativa Stato-mafia”), si è allargato, si è ristretto, ha debordato, è diventato anche strumento di lotta politica.
Ho seguito diversi casi di comuni sciolti per mafia, dove la mafia, alla fine, dentro le stanze del comune non c’era. Ad esempio Pachino, in Sicilia orientale. Si è ritrovato sciolto per mafia nel 2019 a causa di un’indagine che ha riguardato un consigliere di opposizione, poi tra l’altro assolto nel 2022.
Storie simili accomunano altre città siciliane: Siculiana, Racalmuto, Scicli. Allo scioglimento per mafia ha fatto seguito il crollo di tutte le accuse nell’inchiesta che era stata il presupposto del provvedimento. Ma nel frattempo tante vite sono state masticate. Così come a Castelvetrano. Sì, è la città di Messina Denaro. Nel 2017 il comune viene sciolto per mafia a pochi giorni dal voto, senza una reale dimostrazione di infiltrazioni della cosca locale negli appalti dell’ente, e lasciando i tanti cittadini onesti con l’amaro in bocca di non poter decidere il loro futuro. Il caso di Castelvetrano dimostra come la criminalizzazione di un comune è spesso legata più a pregiudizi che ad atti effettivi di infiltrazione mafiosa.
Solitamente, allo scioglimento, come sta accadendo a Bari, si arriva con questo schema: c’è un’indagine che scopre dei fatti di mafia con dei politici collegati; cominciano le accuse di collusione da parte dell’opposizione e della stampa; arrivano gli ispettori e poi il decreto di scioglimento (anche se l’indagine clamorosa che fa partire tutto magari si risolverà in una bolla di sapone).
Sì, lo scioglimento è spesso una clava, utilizzata per scopi politici: fare fuori gli avversari, favorire un ricambio. Lo scrive pure la Commissione antimafia del parlamento siciliano, che nella scorsa legislatura ha voluto vederci chiaro su tutti questi scioglimenti non suffragati da prove evidenti di collusioni, e ha trovato un filo comune: è arrivata a scrivere che c’è «un uso disinvolto e strumentale delle norme che disciplinano lo scioglimento dei consigli comunali», E addirittura: «In taluni casi, lo scioglimento è oggettivamente servito a rimuovere le posizioni contrarie che quelle amministrazioni avevano formalizzato sulla ventilata apertura o sull’ampliamento di piattaforme private per lo smaltimento dei rifiuti». Avete letto bene: piccoli comuni sono stati sciolti per mafia solo perché si erano scontrati contro i signori della munnizza.
A Scicli, sciolto nel 2015, il sindaco Franco Susino venne accusato da un’inchiesta penale di avere relazioni con tale Franco Mormina, netturbino e boss mafioso a capo della “banda degli spazzini”. Il comune venne sciolto dietro il tam tam di stampa e istituzioni che ripetevano che in città comandava una cupola mafiosa. Anni dopo Susino verrà assolto e quello che era un terribile mafioso verrà condannato invece solo per furto di carburanti. «Dovevamo essere eliminati politicamente», commenta oggi Susino.
Lui aveva provato a difendersi, ma bisogna considerare anche una cosa: la legge sullo scioglimento non prevede alcun contraddittorio. I commissari prefettizi fanno quello che vogliono, “inaudita altera parte”. I sindaci non hanno cognizione delle accuse mosse contro di loro, né possono difendersi o contestarle. Non solo, nessuno controlla ispettori e commissari o può sindacare le loro conclusioni.
A Bari la mafia c’è, eccome. In città si contano quattordici clan. C’è una grossa indagine che riguarda anche dei politici, più di cento arresti. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi fa bene a inviare gli ispettori? È quasi una prassi ormai. Lo ha fatto anche a Roma, a Reggio Calabria, a Foggia. Ma nelle carte dell’operazione antimafia – carte che si riferiscono alla sola ordinanza di custodia cautelare per le oltre centotrenta persone arrestate qualche giorno fa – non c’è nessun episodio che abbia come riferimento appalti del comune gestiti da politici eletti con i voti dei clan e le “infiltrazioni” che emergono sono marginali (ad esempio il controllo del settore delle parcheggi della municipalizzata dei trasporti).
C’è il rischio di una regia “politica”? Sì, lo dimostra l’esperienza. Il fatto che il tempo è poco, la discrezionalità tanta e il rischio di provvedimenti superficiali è concreto.
Resta sullo sfondo il fatto che Bari, a giugno, andrà al voto. Ecco già una prima bonifica delle eventuali infiltrazioni. Lo diceva anche Paolo Borsellino: «La matita con la quale votiamo è la nostra prima arma contro la mafia». Pertanto, se ognuno facesse la sua parte, se si evitassero le candidature border line, i comportamenti compiacenti, il mercato dei voti, se si evitassero questi e altri scempi, prima, si eviterebbe tutto questo, dopo. Ce la faremo mai?
Giacomo Di Girolamo