Totò Schillaci aveva una faccia un po’ così e l’espressione un po’ così, non perché fosse un personaggio di Paolo Conte, tutt’altro. Era una di quelle facce che riconosci subito e che ti rimane impressa, perché è la faccia di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, la faccia della fame, la faccia dei guastatori che il ventre di Palermo partorisce dalla sua miseria per mettere caos nel mondo.
Perché in tanti, in queste ore, ricordano le notti magiche del calciatore. Ma a noi piace ricordare i suoi lunghi giorni, molto più realistici e poveri, roba che non finisce nelle canzoni allo stadio. I giorni della sua infanzia a Palermo, nel quartiere Cep (acronimo di Centro Edilizia Popolare), tra gli anni settanta e i primi anni ottanta. Uno degli esperimenti urbanistici peggio riusciti nella storia di Palermo: un quartiere satellite con tanti palazzoni tutti uguali, molto degrado, zero servizi, il solito sacco della mafia.
Avrebbe potuto essere tante cose, Totò Schillaci, non tutte nobili, avrebbe potuto varcare, come tanti suoi coetanei, le porte del Malaspina, il famoso carcere minorile del capoluogo siciliano, fare il posteggiatore abusivo, aprirsi un “negozio” di frutta e verdura, una baracca, cioè nei pressi di qualche incrocio o del mercato, oppure girare con una “lapa” per cercare fortuna e vendere e spostare di tutto.
Se tutto questo non lo ha fatto è perché aveva una cosa in testa, Totò, oltre la fame: il pallone. Il suo unico vero amico, il suo angelo custode: «Ho sempre avuto il pallone in testa», diceva. «Mi ha evitato guai». Non tutti tutti però. Perché la storia di Totò Schillaci è la storia siciliana della lotta tra il campione e la sua maschera, che ogni tanto si riprendeva la scena, lo riportava nell’abisso della sua gente, nella sua vita di espedienti, nella sua lotta per mettere insieme pranzo e cena.
Il fratello inguaiato in una faccenda di gomme rubate, il padre che era dipendente dell’Amia, la municipalizzata dei rifiuti, accusato di peculato. E infine il suo riflesso: il cugino Maurizio, anche lui bravissimo calciatore, forse anche più bravo di Totò, dicevano gli esperti, che fece carriera nel Licata di Zeman, e poi il grande salto con la Lazio, prima che di essere arrestato per detenzione e spaccio di stupefacenti. Oggi vive per strada, in Piazza Verdi, con il suo cane Ciccio, accudito da alcuni volontari che di recente hanno lanciato un appello perché ha “segni di denutrizione”.
Mentre il cugino cominciava la sua parabola discendente, Totò Schillaci, era diventato quello delle notti magiche di Italia ‘90 l’uomo dei sogni e dei gol. Il segreto era sempre la fame. Lo aveva capito uno dei suoi allenatori, il mitico Franco Scoglio, che lo aveva allenato al Messina e racconta che a Totò il pallone non gli bastava mai.
Spesso, dopo la partitella a fine allenamento, mentre gli altri andavano sotto la doccia, lui si fermava per giocare con i ragazzini delle giovanili, e continuava, ancora e ancora, finché il custode non lo convinceva che era meglio chiudere, si era fatto tardi. «Aveva una fame di gol che non ho mai visto a nessuno, né prima e né dopo», racconterà Scoglio. Un appetito che aveva un suo lato pratico: «Quando ho esordito, a Palermo, ero pagato a gol: duemilacinquecento lire ogni rete», racconterà Schillaci. Gol da fare in ogni modo, buttandosi nella mischia, di punta, di testa, a occhi chiusi.
A venticinque anni l’arrivo alla Juventus. Si porta dietro i gol ma anche l’aria da emigrato – ancora lei, la maschera – il simbolo di una Sicilia arretrata, con quel suo italiano timido ed elementare, i modi non certo eleganti per chi frequenta i salotti della Signora del calcio. I tifosi certe cose le subodorano subito, e per lui fu fatto un coro ad hoc che lo perseguitava in ogni parte d’Italia: «Sai chi è quel giocatore che ruba gomme all’Alfa 33? Schillaci ruba, Schillaci ruba le gomme»
Lui incassava senza fiatare. Erano gli anni in cui un certo razzismo sopito nel nostro Paese riprendeva vigore con l’avanzare della prima Lega nord, quella del “Forza Vesuvio”, e mal tollerava l’idea che un siciliano, con quasi tutta la carriera nelle serie minori, fosse protagonista in serie A e in Nazionale. Sbottò solo al termine di un Bari – Juventus: «Io le gomme non le rubo, forse lo fanno gli altri. Guadagno cinquecento milioni all’anno e non ho bisogno di rubare. Mi avvilisce che proprio la gente del Sud abbia preso di mira uno di loro, come me».
A Firenze, durante Fiorentina – Juventus, nel 1991, con i viola che avevano il dente avvelenato, tanto per cambiare, con i bianconeri, per via del trasferimento del campione Roberto Baggio presso l’odiata rivale appena qualche mese prima, per Schillaci oltre il coro arrivò in campo pure il copertone di un automobile con lo striscione: «Ruba anche questo».
Al termine di un non memorabile Bologna – Juventus avvicinò un avversario, ne nacque un diverbio. «Ti faccio sparare», gli urlò, poco prima del tunnel degli spogliatoi. Ci furono grandi polemiche e discussioni, in tanti lo aspettavano al varco per discettare di campioni di calcio e mafiosità.
Ma Totò parlava il linguaggio del suo cortile, del suo quartiere. Lui con la mafia non c’entrava, e fu costretto a ripeterlo tante volte, anche in tribunale. Dopo il ritiro aprì una scuola calcio a Palermo. Nel 2008 fu chiamato a deporre per un processo alla cosca mafiosa del suo quartiere. Non si presentò per due volte. La terza negò di aver mai subito estorsioni e che i furti e i danneggiamenti che c’erano stati non c’entravano nulla con l’imposizione del pizzo.
Alla fine boss lo è diventato. Per finta, ma è stato comunque un brivido. È accaduto nella terza stagione della fortunata serie tv “Squadra antimafia”. Una delle sue tante apparizioni in tv, da “Quelli che il calcio” a “L’isola dei famosi”.
Nel 2001 si candida in consiglio comunale, a Palermo, con Forza Italia, lui che diceva: «Di politica non ne ho mai capito niente e niente ne ho voluto capire». Viene eletto, ma non dura molto. I tempi infiniti della politica non erano i suoi. «Dopo due mesi gli ho detto: sapete che c’è? Andate tutti affanc…». Non gli bastava la politica, né la tv, non gli bastavano le ospitate in tv, i mille affari in cui si metteva, c’era sempre quella fame, quella fame di gol, fino all’ultimo giorno, fino all’ultima azione.