Le richieste di prova sono state, ieri, davanti la Corte d’assise di Trapani (presidente il giudice Daniela Troja), il primo atto del processo a Onofrio “Ninni” Bronzolino, classe 1971, in carcere dal 22 settembre 2023, con l’accusa di avere provocato la morte, a Pantelleria, della compagna Anna Elisa Fontana, classe ’75, gettandole addosso della benzina e dandole fuoco.
Bronzolino è stato rinviato a giudizio, in luglio, dal gup di Marsala Riccardo Alcamo. La donna morì dopo tre giorni di agonia per le gravissime ustioni di 2° e 3° grado sul 90% del corpo. Le richieste di prova sono state avanzate dal pm Diego Sebastiani (Procura di Marsala), dalle parti civili e dalla difesa. L’inchiesta, coordinata dalla Procura marsalese, è stata condotta dal Nucleo operativo Compagnia carabinieri di Marsala e dalla stazione di Pantelleria, con il supporto tecnico-scientifico del Ris di Messina e del Niat dei vigili de1 fuoco. “L’indagine – spiegò, in una nota, il procuratore Asaro - ha consentito di accertare che il Bronzolino avrebbe agito con premeditazione, avendo minacciato esplicitamente la compagna di darle fuoco nei giorni precedenti al fatto, ed a causa di un’esagerata e ingiustificata gelosia”. Tra il 2022 e il 2023, inoltre, l’uomo (difeso dall’avvocato Rosario Triolo) avrebbe maltrattato la compagna, con continue aggressioni, insulti e minacce, ma la compagna non aveva mai sporto querela. Il 4 novembre verranno ascoltati i primi testi del pm. Legali di parte civile sono Marilena Messina, per Anna Bonomo, madre della vittima, Licia D’Amico, per l’associazione “Insieme a Marianna”, Caterina Gabriele, per “Demetra”, Roberta Anselmi, per la “Casa di Venere”, Leo Genna e Marianna Rizzo per i figli della vittima. Rizzo anche per il comune di Pantelleria.
“La nostra presenza nei processi aventi ad oggetto reati di codice rosso – dichiara l’avvocato Roberta Anselmi – è fondamentale per due ordini di ragioni: intanto, per sostenere e dare voce alle donne vittime di violenza per mano degli uomini, e poi per evitare che nelle aule di giustizia si verifichino quegli odiosi fenomeni di vittimizzazione secondaria, la cui radice è principalmente culturale. Spesso, infatti, in questi processi si tende a non credere alla donna ovvero colpevolizzarla, o a stigmatizzarla come corresponsabile di quanto le è accaduto, ‘per essersela cercata’ o ‘per aver messo l’autore del reato nelle condizioni di realizzare quella condotta violenta’. Sul tema della vittimizzazione secondaria – continua l’avvocatessa Anselmi – c’è ancora tanta strada da fare, poiché non tutti i soggetti coinvolti hanno una formazione o una specializzazione specifica sul tema della violenza di genere, elemento fondamentale per individuare e superare gli stereotipi di genere che ahinoi ancora oggi veicolano indisturbati e, purtroppo, anche in maniera inconsapevole nella nostra società”.