Da molti anni vivo in una città a sud dell’Italia. Molto a sud. Poco meno di ottantamila abitanti, una superficie più estesa di quella di capoluoghi di regione come Napoli, Genova o Bologna, e una popolazione che la fa essere il sessantasettesimo comune d’Italia per numero di abitanti.
Questa città, che a residenti e soggiornanti regala tramonti tra i più incantevoli al mondo, è famosa per la produzione di svariate qualità di vino, tra le quali quello che dalla città prende il nome, ed è commercializzato dalle terre del sol levante al far west.
Ma io, che non sono autoctono, conosco il nome di questa città da tempi in cui il vino non poteva essere per me oggetto di interesse: quinta elementare, storia e geografia, Risorgimento, 11 maggio 1960, Marsala.
Proprio così, l’epica risorgimentale che racconta l’origine del Regno d’Italia vede la sua prima scena sulla battigia appena fuori dalle mura della città di Marsala, e a questo punto il valore dell’industria enologica scivola in secondo piano, per lasciare il primo piano al più nobile aspetto storico grazie al quale la città impone il suo nome all’attenzione di tutti i banchi di scuola e alla memoria di tutti gli italiani.
Quindi, Marsala città simbolo del Risorgimento? Direi di si, credo che nessuno avrebbe a che dire. Ma non basta. Io ci vedo qualcosa di più, un simbolismo che prescinde dal linguaggio umano di poeti, storici, romanzieri e politici. Un simbolismo arcano, che dalla natura prende in prestito il linguaggio e lo usa per rivelare che la morfologia del luogo dove tutto ha avuto inizio profetizza il destino dell’Italia, e soprattutto del suo sud. Perché Marsala è la città dello Stagnone, la laguna incantata dove il sole ha scelto di andare a morire ogni giorno, e sembra che ci parli mentre sorseggiamo l’aperitivo, ogni giorno, e ci chieda quante volte ancora dovrà morire per colorare d’arancio l’acqua stagnante che fa da scenografia ai nostri aperitivi. Quante volte ancora dovrà calarsi in quest’incantesimo salato su cui cuociamo a bagnomaria la nostra vita? e quanti calici di bianco dovremo ancora bere, mentre consegnamo i nostri sogni a questo specchio magico di acqua ferma, di politica ferma, di mentalità ferma? Si, penso che la città che, più di ogni altra, possa riconoscersi “simbolo dell’Italia” sia proprio Marsala, col suo Stagnone, acqua ferma come la coscienza degli italiani. A poche centinaia di metri dalla Laguna incantata, mentre sorseggiamo l’ottimo vino che fa da albero motore all’economia lilibetana, su una linea ferrata ottocentesca che ci fa sentire ancora borbonici, passa un trenino stile luna park. Eurodisney ce lo invidia, prova a farci concorrenza sleale con un mediocre trenino a vapore che sembra essere stato disegnato per un fumetto di Topolino; il nostro, secondo maliziosi pettegolezzi, sembra debba servire ad innescare la pietà di Unicef, Croce Rossa e Medici Senza Frontiere. E mentre i napoletani cavalcano l’alta velocità del 2025 raggiungendo Firenze in meno di tre ore, il nostro trenino a diesel percorre il tragitto Palermo – Castelvetrano con tempistiche da Parigi – Dakar in monopattino. Ma nessuno si agita, nemmeno l’acqua. Ferma. Come la pazienza del siciliano che paga la tassa per un acquedotto colabrodo che, nei casi più eclatanti, fornisce acqua due volte a settimana. E il problema degli acquedotti colabrodo non affligge solo i siciliani: in Valdaosta l’acquedotto perde solo il 22% dell’acqua trasportata (virtuosi!) mentre i casi più drammatici sono Basilicata e Abruzzo che perdono fino al 56%. Tutte le altre regioni galleggiano nel mezzo dell’Hit Parade. Il problema è annoso, ma non basta ad agitare le anime. L’incantesimo dello Stagnone continua a mantenere tutto fermo. Negli ultimi vent’anni le norme europee relative al trattamento delle acque non hanno destato troppo interesse in chi governa e così l’Italia è accusata e condannata dalla Corte Europea al pagamento di una somma forfettaria pari a 25 milioni di euro alla quale, però, si aggiunge una penalità giornaliera di 165.000 euro al giorno fino a quando non sarà rispettata la prima sentenza (con tanto denaro ci veniva il treno a levitazione magnetica che in Giappone è dato per scontato). Anche questo non basta ad agitare le anime, ma a questo punto, più che di pazienza ferma, parlerei di stato catatonico. La somatica della politica italiana mostra palesemente una continuità genetica con quella delle signorie del XIV secolo, mentre Stato moderno e paradigmi democratici fanno da impalcatura scenografica. Dominio violento del territorio, nepotismo, attitudine cronica alle congiure di palazzo e controllo manipolatorio dell’informazione sono tratti genetici che, da allora, si sono tramandati fino ad oggi.
Nel frattempo, sono successe tante cose, nella frammentata realtà politica della penisola italica come in Europa. Ma mentre in Europa i fatti cambiavano la sostanza per riflettersi nella forma, in Italia la forma cambiava per esigenza mimetica e la sostanza si conservava nell’ambiente mummifico della stagnazione. La ricetta prevede una spolverata di proteico conservatorismo di matrice cattolica. Così, dopo l’Abracadabra del Magus, sopraggiunge l’eco del “ora pro nobis”. Il gattopardo usa il suo manto maculato per adattarsi alle mutazioni ambientali, cambiare per non cambiare. Tomasi di Lampedusa docet. Sotto il manto che rimanda illusorie immagini di progresso, rimane cristallizzata l’indole conservativa del felino predatore. È roba che proviene dai tempi dei blocchi di granito, un modus operandi che attraversa i millenni sopravvivendo alle rivoluzioni industriali e a quelle sociali, ai referendum e perfino alle prese della Bastiglia. L’Italia Cenerentola si presenta al ballo dei principi europei travestita da principessa, ma nella mezzanotte della constatazione dei fatti, perde la scarpetta: sanità malata, infrastrutture in attesa di restauro, giustizia braccata da riformismo sospetto, scuola incatenata a modelli giurassici e investimenti sulla ricerca tendenti allo zero Kelvin. Il momento elettorale, in teoria scettro della sovranità popolare, è in realtà caratterizzato dall’atteggiamento imprenditoriale dei duchi della politica che fanno leva sulla precarietà (coltivata), il mercato del consenso. Miseria atavica ai tempi del 5G. Conservativo, allergico ai cambiamenti quando autentici, il potere sa essere camaleontico ma la sua essenza non si evolve. Evoluzione e arte mimetica non sono la stessa cosa. Si rafforza nel tempo quando le condizioni ambientali persistono, quando le cose non cambiano. Ogni volta che emerge un nuovo tipo di consapevolezza, un nuovo modo di pensare, un nuovo criterio atto a riconoscere parametri e priorità finalizzati ad un nuovo modello di vita, il potere riceve un colpo d’ariete. E il castello sussulta. Ma qui, l’ultimo autentico sussulto risale ai vespri siciliani. Da allora neanche l’esito della perquisizione al Centro Scontrino è riuscito a far tremare il castello: massoneria fidanzata con mafia, scambio di droga per armi, servizi segreti e deontologia piduista al servizio di stay behind, banche fidanzate sia con la massoneria che con la politica, flirt tra mafie e terrorismo internazionale… un’orgia. Roba da settimo grado Richter, altro che sussulto. E invece niente. Tutto fermo. Stagnazione. Il gattopardo è ancora vivo.
Ecco perché, mentre sono immerso nell’incantevole spettacolo dello Stagnone, mi concedo un’autosuggestione terapeutica, la contemplazione estatica di una crisalide salvifica, che da un momento all’altro darà vita a una farfalla, rivelatrice della possibilità di lasciarsi dietro un passato strisciante, per assurgere a un dignitoso presente di libero volo nel giardino di una democrazia sana, reale e consapevole. Le cose possono cambiare, la natura ce lo suggerisce attraverso l’esempio della crisalide, promessa di un futuro da farfalla. Ma non è gratis, non è scontato. Essere nella crisalide significa saper vedere la farfalla, ci vuole coraggio.
Massimo Cardona