Otto miliardi e mezzo di dollari per danni ambientali, e un 10 per cento in più a titolo di risarcimento alle popolazioni indigene, è l’ammontare della condanna inflitta in primo grado alla Chevron-Texaco, dopo quasi trent’anni di sfruttamento petrolifero nell’Amazzonia ecuadoriana.
Dal 1964 al 1992, la Texaco, successivamente acquistata da Chevron, ha sversato circa 80 miliardi di metri cubi di rifiuti tossici e scarti di petrolio nei fiumi della foresta ecuadoriana, distruggendo comunità indigene e culture ancestrali e modificando per sempre un patrimonio unico di biodiversità. Il solo danno ambientale è dieci volte superiore al recente disastro petrolifero nel Golfo del Messico ad opera della British Petroleum, mentre il numero di vittime a causa dell’inquinamento dell’acqua e dei suoli è ancora incerto ed in costante crescita.
“Il mondo deve sapere cosa è accaduto in Amazzonia, la nostra è una lotta per la vita e la giustizia”, ha dichiarato commosso subito dopo la sentenza Humberto Piaguaje, uno dei leader indigeni che hanno portato avanti la storica battaglia.
E quello che è accaduto è che, dopo avere sopportato per quasi trent’anni le conseguenze dell’estrazione di oro nero ad opera della Texaco, trenta mila indigeni di Sucumbios, regione dell’Ecuador al confine con la Colombia, decidono di far causa alla multinazionale statunitense attraverso un’azione collettiva.
Trent’anni di esplorazioni fatte a colpi di dinamite che hanno portato alla fuga centinaia di specie animali, danneggiando l’ecosistema e riducendo la quantità di cibo a disposizione delle popolazioni indigene locali. Trent’anni di fuoriuscite di petrolio dall’oleodotto che attraversa la foresta. Corsi d’acqua trasformati in discariche d’oro nero. Coltivazioni perse per sempre e terreni resi improduttivi dalle infiltrazioni di materiali di scarto dell’estrazione di petrolio.
Ciminiere che bruciano senza sosta il gas del sottosuolo da eliminare per portare in superficie il greggio. Un fuoco costante, incessante durante il giorno e la notte, che sprigiona calore ed emana una luce che spezzano il già precario equilibrio del principale polmone verde del nostro pianeta. Gli uccelli emigrano, i predatori si allontano e gli indios vedono depredata e distrutta per sempre la loro madre terra, la pachamama, che da sempre rispettano e proteggono, per il bene di tutti.
Un disastro in nome della crescita economica che ha lasciato nella miseria le popolazioni locali e di fronte al quale gli indigeni di etnia secoya, kichwa e huaorani hanno alzato la testa, guidati da Pablo Fajardo, un giovane avvocato recentemente premiato dalla CNN come “eroe straordinario” per il suo impegno in difesa dell’ambiente e delle comunità locali.
E finalmente il 14 febbraio la sentenza emessa dal tribunale di Nueva Loja, capoluogo di Sucumbios. La Chevron-Texaco dovrà pagare 8.646 milioni di dollari per danni ambientali, più un dieci percento per i danni provocati alle comunità colpite, alle quali peraltro dovrà chiedere pubblicamente scusa se non vorrà vedersi raddoppiata la condanna.
Ma a rendere ancora più epica la storia di queste piccole comunità indigene amazzoniche è la decisione di ricorrere in appello. I 9 miliardi di risarcimento sono appena un terzo dei danni che le perizie hanno stimato durante il processo. “Una multa significativa ma irrisoria” l’ha definita Fajardo. E di miliardi gli indigeni ne chiedono 27 per poter riparare il disastro ambientale operato dal colosso statunitense, mentre per la perdita di vite umane e i danni permanenti alla salute il danno è incalcolabile.
Chevron da parte sua ha già fatto sapere che non intende sottomettersi alla decisione del giudice ecuadoriano e farà ricorso in tutte le istanze locali ed internazionali per dimostrare la propria innocenza e l’illegittimità della sentenza.
Al di là di quello che sarà l’esito finale, l’Ecuador si è comunque reso protagonista di un risultato storico dal grande valore simbolico.
Tancredi Tarantino