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25/09/2012 15:17:15

Mozia per sempre

Perché sembra che l’aria, su quel verde miraggio di terra emersa, così piccina e affogata in una laguna calda e densa di alghe e di sale, sia impregnata di essenze che stordiscono, ammaliano, inducono a fantasie quiete e sensuali. Gli effluvi marini, abbracciando le rive di Mozia, si sciolgono nell’aroma dei pini, degli oleandri e dell’arenaria cotta al sole; i ciuri ri ficu r’innia – i fiori dei fichi d’india, dal delicatissimo profumo – che qui abbondano, venivano somministrati anticamente, sotto forma di tisana, dalle mamme sfinite ai picciriddi inquieti e insonni, per vederli finalmente sprofondare nel mondo dei sogni. E nel silenzio profondo, in cui vibrano i suoni del vento, le voci si perdono come echi lontani.
Qui venne Giuseppe Garibaldi, il 20 luglio del 1862, a cercare qualche ora di pace e di oblìo prima di lanciarsi nella nuova avventura: la conquista di Roma. Due anni prima aveva colto il trionfo, sbarcando a Marsala. Ora sperava – invano, come Aspromonte insegna – di vincere in un’impresa ancor più clamorosa, ripartendo dalla stessa città che gli aveva portato così grande fortuna. Il 19 luglio, a Marsala, gridò insieme al popolo: «O Roma, o morte!». Ma il giorno dopo sentì il desiderio di visitare Mozia. Pranzò in una povera casa di contadini, dissetandosi col vino forte ambrato e deliziandosi col pane nero intinto nel sugo della pasta cu ll’agghia.
Nei primi anni del Novecento poteva anche accadere, a Marsala, che qualche stravagante signore decidesse di condurre la sua sposa a Mozia per la luna di miele: quanto meglio dovevano riuscire i gelosi riti dell’amore nell’intensa solitudine dell’isola, che non tra le pareti di un albergo di qualche città continentale, piena di chiasso e di pericolose distrazioni! Uno di quei tipi originali fu il mio caro zio Attilio, il generale della guerra d’Africa, che amava a tal punto la zia Emma da non sopportare che ai loro sussurri d’amore si mescolassero altri suoni, all’in fuori del canto dei grilli e delle cicale di Mozia, e del vento tra i pini.
Vista dalla costa, tra gli specchi accecanti delle saline, l’isoletta appare dapprima come una visione irreale, quasi un boschetto assurdamente piantato in mezzo al mare. E inoltrandosi di pochi metri in quella fitta macchia, la sorpresa non fa che aumentare, alla vista d’una manciata di casupole che paiono strappate alla scena di una Cavalleria rusticana. Traversando l’isola con una facile passeggiata di un quarto d’ora, fino a raggiungere la sponda occidentale, ecco apparire una riga di terra che si confonde con la linea dell’orizzonte, creando l’effetto di una nuova illusione ottica: è il profilo di un’altra isola, detta Lunga o Grande, deserta e vagamente inquietante, che argina il mare a ovest creando la vasta laguna dello Stagnone di Marsala. E vi chiedete, allora: come può, quel fazzoletto di terra galleggiante in un brodo di alghe, avere ospitato una delle città più floride dell’antichità? Ma è davvero questa la leggendaria Motye (“filanda”, in lingua fenicia) di cui parlano Tucidide, Strabone e Diodoro Siculo nei loro sapienti libri di storia?
L’evidenza, e la bellezza, degli scavi e dei reperti archeologici non lascia adito a dubbi: la splendida Motye fondata dai fenici alla fine dell’ottavo secolo a. C., distrutta dal tiranno Dionisio il Vecchio di Siracusa nel 397 a. C. e sopravvissuta fino alla conquista romana nel 241 a. C. è proprio lì davanti a noi. Riportata alla luce dopo due millenni di inabissamento totale. Con le sue mura, le scale, i mosaici, la misteriosa piscina del cothon (il bacino di carenaggio), il temenos (l’area dei templi), il tophet dove si compivano i sacrifici umani per la dea Tanit e per il dio Baal-Hammon, e il piccolo museo archeologico che custodisce – tra innumerevoli reperti di ogni tipo – la statua stupenda del Giovane in tunica, capolavoro greco emerso dagli scavi dell’isola nell’ottobre del 1979.
Nel Settecento, quando anche in Sicilia si risvegliò l’interesse per le antiche pietre, e gli studiosi cominciarono a muovere i primi passi tra gli immensi giacimenti archeologici dell’isola, il nome di Mozia affiorò sulle labbra degli eruditi circonfuso dall’aura del più fitto mistero. Ci si chiedeva: dov’è? Vicino a Mondello? A Sferracavallo? Sull’Isola delle Femmine davanti a Capaci? Oppure sull’isulidda di San Pantaleo nello Stagnone di Marsala? (In favore di quest’ultima ubicazione si era pronunciato già verso i primi del Seicento il celebre geografo tedesco Philipp Klüver, noto in Italia come Cluverio; geniale intuizione, non sostenuta però da vere prove archeologiche). Qualcuno, poi, confondeva Mozia con Motica, e concludeva che l’antica città punica si doveva cercare nel sottosuolo di Modica: un’assurdità, per il semplice fatto che il territorio di Modica si trova nella parte greca della Sicilia, ben lungi dall’area nord-occidentale controllata per secoli da Cartagine e dai suoi alleati, gli elimi di Erice e di Segesta.
La grande svolta avvenne nella seconda metà dell’Ottocento. E, all’inizio, quasi per caso. Un giorno d’autunno del 1875, all’improvviso, arrivò alle saline di Marsala un signore tedesco sulla cinquantina. Cercò una barca, raggiunse l’isola di San Pantaleo e vi passò alcuni giorni scavando frettolosamente di qua e di là. Poi salutò e se ne andò, senza aver concluso nulla di importante. Quel signore si chiamava Heinrich Schliemann, e l’anno precedente aveva scoperto in Turchia le rovine di Troia, e avviato gli scavi delle tombe degli Atridi a Micene. Che cosa cercava a San Pantaleo? Voleva forse dimostrare che quella era l’antica Mozia? Nossignori, il grande archeologo aveva tutt’altro per la testa: cercava semplicemente delle punte di freccia “di tipo fenicio”, che assomigliassero a quelle da lui trovate a Micene. Ma il fatto che Schliemann le andasse a cercare proprio a San Pantaleo, non voleva già dire che, per lui, quell’isoletta poteva davvero essere Mozia?
Il passaggio dello scopritore di Troia e di Micene ebbe l’effetto di un turbine sulla placida laguna dello Stagnone. E di un colpo di cannone che risvegliò la fantasia degli studiosi siciliani. Da Palermo, dopo breve tempo, arrivò un giovane universitario che doveva dare la tesi di laurea in archeologia. Grattò la terra dell’isola e la esplorò. Osservò i frammenti affioranti delle ciclopiche mura. E si stupì quando vide i pittoreschi carretti siciliani dei vendemmiatori che andavano su e giù da Birgi all’isola, per trasportare l’uva e i fichi di San Pantaleo, passando in mezzo al mare su una strada sommersa: non era forse quella la strada che gli ingegnosi moziesi avevano costruito venticinque secoli prima per trasferire i loro morti nella necropoli di Birgi? Lo studente, il cui nome era Innocenzo Coglitore, pubblicò la sua tesi nel 1884, con il semplice titolo di Mozia. Studi storico-archeologici. E da quel momento furono solo i contadini e i salinari a chiamare l’isola col nome di San Pantaleo. Per tutti gli altri era diventata Mozia. Mozia per sempre.
Restava aperta la questione degli scavi. Chi li avrebbe eseguiti? E a spese di chi? Dovettero passare solo pochi anni prima che un nuovo turbine salutare si abbattesse sullo Stagnone: non tedesco, stavolta, ma inglese. Fu uno degli eredi delle grandi famiglie britanniche, che alla fine del Settecento avevano creato a Marsala l’industria del vino: Joseph Whitaker. Il ricco, colto, raffinato signore innamorato della Sicilia e della sua storia millenaria non ci pensò due volte. Comprò l’isola, diede avvio agli scavi nel 1906, e fino al 1919 vi si dedicò con lo stesso amore con cui curava le sue botti di vino. Grazie a lui, e alla passione di sua figlia Delia che fino agli anni Settanta del Novecento amministrò l’isoletta, trasmettendone la proprietà a una fondazione culturale intitolata a suo padre, Mozia divenne quello che oggi è: uno dei siti archeologici più affascinanti e autentici del Mediterraneo.