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06/01/2013 01:03:05

Il fallimento della riforma del lavoro

 In uno dei primi casi verificatisi, quello del licenziamento del comandante Schettino, in seguito al disastro della Costa Concordia, la cosiddetta "riforma" mostra di essere un garbuglio, di difficile soluzione. Il comandante della nave ha impugnato il licenziamento presso il giudice del lavoro di Torre Annunziata. La società Costa ha replicato con un ricorso, a sostegno del licenziamento, al tribunale di Genova, secondo il rito Fornero. Il giudice di Torre Annunziata  ha sospeso il giudizio, in attesa che si accerti quale tribunale sia competente, Torre Annunziata o Genova, e se il rito Fornero sia utilizzabile dal licenziante. Come volevasi dimostrare, affermano i critici della "riforma", che riforma non é stata per il fatto che non é stato radicalmente modificato l'art. 18 deprecato, ma é stato sostituito con norme che ne lasciano inalterata la rigidità e ne complicano l'applicazione.

 Così viene meno un'altra voce dell'elenco delle buone cose fatte dal governo Monti. Né poteva essere diversamente, se si ripercorre la via seguita dal governo e dal parlamento per approdare alla inconcludente riforma. Il governo, con la Fornero in testa, era partito bene, presentando un bozza di riforma che poteva dirsi una svolta rispetto al passato. Un passato molto deprecabile, a dire il vero. Da qualche decennio - veniva osservato da molti giuslavoristi - la rigidità dello Statuto del lavoratore, targato 1970, non rispondeva più alle esigenze dell'economia globalizzata e transnazionale, quale è diventata la vecchia economia. Le imprese ormai non hanno più frontiere, almeno per buona parte del globo. Esse localizzano i loro stabilimenti dov'é più facile produrre e guadagnare. Se in un Paese il mercato del lavoro é talmente rigido da impedire all'imprenditore di attuare la propria politica lavorativa, dovendo rispettare i posti di lavoro fino al punto di mettere a rischio la remuneratività dell'impresa, e fino al punto di rischiare il fallimento, l'imprenditore su guarda attorno e se vede un Pese in cui la sua capacità di imprenditore possa essere meno imbrigliata da vincoli, sposta la sua attività là, e chi si é visto s'é visto.

 I sindacati italiani, da parte loro, ragionano ancora come ragionavano nel 1970, prima della globalizzazione. Allora ancora esistevano le barriere giuridico - economiche tra una nazione e un'altra. Le nostre merci avevano un certa protezione nel mercato interno. La protezione del posto di lavoro del lavoratore andava di pari passo con la protezione che veniva accordata dalla Stato alle imprese. Nello stesso momento in cui le imprese venivano penalizzate dalla rigidità del mercato del lavoro, approfittavano delle condizioni di favore elargite dallo Stato. Era un "do ut des" che non faceva perdere né il mondo del lavoro, né quello imprenditoriale. Finito il tempo delle economie nazionali, mantenere rigido il mercato del lavoro e non dare più garanzia di protezione nazionale alle imprese, vuol dire penalizzarle nei confronti delle imprese straniere che usufruiscono di un mercato del lavoro più flessibile e moderno. Questo non l'hanno capito i nostri sindacati, che hanno fatto e fanno, non appena si muovono, una battaglia che, se anche risultasse formalmente vincente, sarebbe persa per l'economia nazionale e per tutti i lavoratori.

 la modifica del famigerato art. 18 incontrò sul proprio cammino i nostri sindacati, e Fornero,  governo e Parlamento furono costretti ad arretrare. Di passo in passo indietro, in seguito a scioperi fatti o minacce di scioperi dei sindacati, si é arrivati alla inconcludente "riforma" che il giudice di Torre Annunziata ha definito di difficile applicazione.

 Leonardo Agate