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23/01/2013 04:39:00

A ccu pigghi pi? mmugghieri?

Giravo da ore a piedi per la Little Italy di Boston, a caccia di storie e di immagini per un reportage giornalistico. Era l’inizio di settembre del 1987. Mi si scollò la suola di una scarpa, cercai un ciabattino e lo trovai. Era una piccola bottega, tappezzata di quadretti e di vecchie foto-ricordo in bianco e nero appesi alle pareti. Una pallida veduta delle rovine di Selinunte, un gruppo di famiglia risalente all’epoca dell’emigrazione. Il ciabattino era un uomo sulla quarantina, che cordialmente accettò di interrompere il suo lavoro per ripararmi la scarpa. Tentai di parlargli in italiano, ma non ne capiva una parola. Provai col siciliano arcaico, quello più occidentale del Val di Mazara zeppo di arabismi e spagnolismi, che mi aveva trasmesso mio padre, e gli s’illuminò il viso: la sua famiglia era originaria di Castelvetrano, e finalmente avevamo trovato la via giusta per capirci davvero.

Mentre incollava la suola, mi venne in mente di chiedergli se ricordava per caso i nomi di qualche famiglia di Castelvetrano. Speravo che mi dicesse “Di Benedetto”, il cognome di mia nonna, ma di quello lui non rammentava niente. Disse però, a un tratto: Atria. Ebbi un sussulto. «Atria? Quale Atria?», gli chiesi. Lui ebbe dei dubbi, ma dopo un po’ disse che, forse, uno di questi Atria era un medico, che tutti conoscevano però come poeta. Mi sembrò di sognare. Non poteva essere vero! «Volete dire», gli chiesi, «che voi avete sentito parlare di Nino Atria, l’autore di un poema intitolato La cialòma?». Il ciabattino depose scarpa e colla, si tolse gli occhiali e mi guardò bene in faccia, con due occhi sgranati come se avesse visto in me l’apparizione di un santo. Balbettò: «Iddu, iddu!». Mi venne la pelle d’oca.

Pochi istanti dopo, io e il ciabattino di Boston recitavamo insieme, increduli, alcuni versi della famosa Cialòma, che entrambi conoscevamo a memoria. È un poema burlesco, satirico, tragicomico, che ha per soggetto la storia intricatissima di un matrimonio scandaloso e contrastato. Nino Atria lo pubblicò nel 1910, e so che di recente ha avuto anche una degna riedizione; ma io non ne ho mai posseduto una copia stampata. Il suo titolo, cialòma, significa “chiacchiericcio confuso”, come quello che si ode in una sala dove molte persone parlano a voce alta tutte insieme. Il tono dei versi è popolaresco, a tratti greve e sguaiato, adatto allo scopo di strappare le risa a un pubblico di gente in vena di grassa allegria, magari al culmine di una festa di nozze, quando il vino forte ha già reso barcollanti un po’ dei convitati. Mio padre ne recitava spesso dei brani a me e a mio fratello quando eravamo bambini, ripetendoceli, al solito, fino alla saturazione dei neuroni preposti alla funzione mnemonica.

Esilarante era la scena della confessione in chiesa del promesso sposo, quando il prete, indignato e confuso, perdeva le staffe e si metteva a gridare, facendo rimbombare la sua invettiva sotto le volte del tempio:

A ccu pigghi pi’ mugghieri,

a tto figghia o a tto figghiastra?

A ddra tennera puddastra?

A ddr’aceddu senza pinni?

Curri, scarrica e vvattìnni!

 

Irresistibile, per noi bambini amanti delle porcherie verbali, era poi la scena dell’incidente avvenuto durante le nozze, quando l’abito della sposa si strappava, lasciandola nuda e procurando un trauma particolarmente stomachevole allo sposo:

 

A la zita, mischinedda,

ci si scurcia la fardedda,

e lu zitu s’è scantatu:

ottu voti s’è cacatu!

 

Immaginate questi versi sublimi recitati nella bottega di un ciabattino di Boston! Mai come in quel momento ebbi la percezione dell’assurdo, della ben nota piccolezza del mondo, e della stravaganza di certi poeti siciliani. Già, la stravaganza. A tale proposito, la figura del futurista Giulio Anca (già da me evocata in un’altra puntata di queste storie marsalesi) si potrebbe considerare esemplare. Ma a questo punto, visto che siamo di nuovo in argomento, vorrei insistere e allargare il discorso ad altri soggetti forse non meno pazzi di lui.

Uno era Giuseppe Rizza, personaggio – forse marsalese, come il Dante Alighieri del barone Barraco! – di cui purtroppo non so assolutamente niente; tranne il fatto che, fra i documenti di mio padre, trovai un giorno un foglio di carta velina, tuttora in mio possesso, su cui è battuta a macchina una poesia – sicuramente inedita – composta di quattro quartine a rima alternata, firmata da lui e intitolata “Invocazione”. Più che di un’invocazione, si tratta di un’invettiva lorda e truculenta, rivolta contro un misterioso nemico che non viene mai nominato, ma che indubbiamente doveva stare sulle scatole di questo Rizza in una maniera speciale. I versi consistono in un florilegio di insulti rozzamente scatologici, ma talmente elaborati e ricamati da sublimarsi in una sorta di virtuosismo barocco, di bassissima lega ma di rara efficacia:

 

O petra di la veru tafalìa,

bestia antica, quatrupeti animali,

granni sceccu di la Pantiddraria,

strunzu impisciazzatu ntra rinali.

 

O pariddrata di strunzuna fritti,

cantaru fitusu e ntartaratu,

chi fetu a mai finiri sempri mitti:

o tintu cantaruni ammanicatu!

 

O merda di li mmerdi putrefatta,

di li cchiù antichi aci stimpirata,

virmusa, lorda, quacchiarusa e sfatta,

chi mmezzu a li munnizzi fu cacata.

 

Va ettati nall’aciu unni niscisti,

va nata tra li mmerdi com’a ttia.

Pirchì ntra di niatri ti mittisti

o strunzu puru di la strunzarìa!

 

Esagerando un po’, sarei tentato di definire il Rizza come il Domenico Tempio della scatologia.

Un altro di questi poeti singolari è il mio amico e coetaneo Scipione Spanò Genna, detto Cione, rampollo di una delle più antiche e nobili famiglie marsalesi, che purtroppo non vedo e non sento da decenni (qualcuno mi sa dire se è ancora vivo, come spero?). La stravaganza di Cione non brilla unicamente nelle trovate dei suoi versi, da lui raccolti in un volumetto intitolato Cionate, pubblicato “in proprio” a Marsala nel 1973. Tanto per intenderci, ecco quello che lui scrive nell’autointroduzione di questo libro raro: «Sono stato sempre contrario alla pubblicazione delle mie liriche, ed ho sempre rifiutato sdegnosamente le proposte di pubblicazione: esse mi appartengono, sono l’unica cosa che ho di veramente e soltanto mio. Ne sono gelosissimo. Ma ora che mi è necessario un discreto gruzzolo di denaro, ho deciso di pubblicarle». E infatti ricordo benissimo come un giorno arrivò a casa nostra a Milano un postino, con un pacchetto di raccomandata che mio padre dovette pagare alla consegna – tremila e cinquecento lire più il costo della spedizione –, senza nemmeno sapere di cosa si trattasse. Lo aprimmo, e vi trovammo il volume delle Cionate, che nessuno di noi si era mai sognato di ordinare, anche perché ne ignoravamo del tutto l’esistenza. Ecco in che semplice modo quel genio poetico riuscì a guadagnarsi il “discreto gruzzolo di denaro” che gli era necessario.

Comunque, sia ben chiaro che io ancora lo ringrazio per quell’idea balzana. Infatti, quante e quali perle di autentica poesia mi sarei perduto se lui non avesse optato per quella sfacciata tecnica commerciale! Sentite, per esempio:

 

Verso il cielo io volo,

dentro la palude sprofondo.

Miei compagni sono

bianche colombe

e luridi rospi.

Tu questo mi dai.

Tutto questo insieme,

quando ti penso.

 

Davvero una bella dichiarazione d’amore! Ma c’è di meglio, quando tocca le corde mistiche in una poesia dedicata “A Dio”:

 

Fammi albero,

fammi pesce,

fammi cane.

Non voglio più ragionare:

troppo ho sofferto.

 

O quando intona le note tragiche in un componimento di tre versi intitolato “Il pugnale”:

 

Al mattino un pugnale alla mia finestra,

al tramonto era dentro la mia camera,

di notte nel mio cuore malato.

 

O quando rivela il suo struggente amore per gli animali:

 

Era una bestiola,

piccola, pelosa, intelligente.

Chit era il suo nome.

Era meraviglioso parlare a lei,

più di quanto è ora, per me,

amare una donna.

 

E che dire delle visioni da incubo nella lirica d’amore “L’ultima occasione”?

 

Con te avevo l’ultima occasione

di rinsavire, di purificarmi.

Ma non vidi l’alba radiosa

sul tuo capo folto.

Riuscii a vedere un tramonto scuro

su di un cranio secco.

 

E delle fulgide immagini patriottiche, nell’ode intitolata “Italia mia”?

 

Tu, genitrice di inattaccabili.

Tu, la più bella natura.

Tu sei ora l’albergo

di assolati papaveri

e di umidi paperi.

 

Ma il colmo dei colmi, l’amico Cione lo tocca con una poesiola di tre quartine intitolata “Se tu non ci fossi”, scritta a Palermo il dieci giugno del 1968. Udite le iperboli:

 

Se tu non ci fossi

berrei le fiamme,

mangerei biada,

arderei nella brina.

 

Se tu non ci fossi,

metterei le scarpe in testa,

odierei le formiche,

le cipolle mi farebbero ridere.

 

Se tu non ci fossi,

vedrei le stelle in terra,

il sole scuro,

sentirei, in estate, ghiaccio.

 

Ora capirete perché, quando mi sento un po’ triste, riapro volentieri le provvidenziali pagine delle Cionate.

Un altro genio bizzarro di Marsala fu il cavalier Francesco Gambini, famoso e ricercato intorno alla metà dell’Ottocento per la sua abilità nel comporre epigrafi di vario genere. Era talmente fiero della sua bravura, che decise di raccoglierle in un libriccino, che pubblicò a Palermo nel 1881, col semplice titolo di Iscrizioni del Cav. Francesco Gambini. Gli epitaffi fanno pensare a una piccola Spoon Riversiciliana. Eccone uno dedicato a un valoroso ufficiale di Marina:

 

Sepolcro

di

Antonino M. Monti

nautico valoroso

da pelotino nella R. Marina

pugnò in cimentose battaglie

e n’ebbe ferite ed onori.

Nato in Napoli addì 8 luglio 1786

meritò quivi

plauso gratitudine amore.

Trascelto a capitano di questo porto

nel meglio delle speranze

percosso da tabe intestinale

gli 11 marzo 1846

nello schianto di desolata famiglia

mancò.

Oh sia requie all’anima benedetta!

 

Tornando però alla poesia vera e propria, che dire del Testamento dell’asinodel professor Rosario Armato, “dottore in medicina e socio di più accademie di scienze e lettere”, pubblicato a Mazara presso la Tipografia Luigi Ajello e Figli nel 1868? Il poemetto, di intonazione satirica, consta di 224 ottave di endecasillabi scritti in un siciliano letterario frizzante e fantasioso. In una breve prefazione, l’anonimo Editore – probabilmente il tipografo stesso – definisce l’opera “curiosa”. E come dargli torto?

Il tema del testamento è classico e intramontabile: da Epicuro a Villon, fino alla celebre ballata di De André, vasta è la schiera dei pensatori e dei poeti che se ne sono serviti per fustigare e irridere i costumi della loro epoca e gli eterni vizi umani. Il fatto poi che il nostro autore lo attribuisca a un asino non deve sorprendere: nella tradizione iniziatica, questo animale è spesso un occulto simbolo di sapienza, come traspare anche nell’episodio evangelico dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme in groppa a un’asina. La bizzarria del poemetto non consiste perciò nel suo argomento, ma nelle arguzie e nelle trovate lessicali che vi si trovano sparse.

Notevole, fra tutti, è il geniale concetto di “minchialità”, termine che non si trova nemmeno nel Dizionario siciliano-italianodi Vincenzo Mortillaro, e che Armato s’inventa per definire il sommo grado dell’insipienza umana: quel micidiale miscuglio di ignoranza, egoismo e stupidità che ha sempre fornito la base culturale delle tragedie storiche. E il suo asino moribondo si diverte beffardamente, appunto, nel destinare le quote maggiori dei suoi beni non già ai virtuosi e ai saggi, ma ai più devastati da quella tabe letale:

 

Vogghiu assolutamenti chi maggiuri

sia ‘ntra l’eredità cui è cchiù gnuranti;

e cumannu a la Sorti, ch’in favuri

si ci avissi a spiegari in ogni stanti.

Li gradi cu li tituli di onuri

li vogghiu dati a chisti tutti quanti,

né pozza essiri eredi cui nun ha

in gradu summu la minchialità.

 

Altro che stravaganza! Qui sembra di sentir parlare l’antica sapienza di Severino Boezio, quando nella Consolazione della Filosofia diceva che: «le cariche di potere e gli onori più importanti vanno quasi sempre a finire nelle mani delle peggiori canaglie».

Ma se Rosario Armato si cela dietro le dotte arguzie di un asino, in campo apertamente politico e ideologico si schiera invece un altro professore, il prete spretato e scomunicato Domenico Mastruzzi, che a Palermo nel 1869 dà alle stampe un violenta satira anticlericale intitolata La birritta magica, o sia la mazzuliata a li parrini. Mastruzzi ha il dente avvelenato contro l’arcivescovo di Palermo, monsignor Giovanni Battista Naselli, da lui definito nella dedica introduttiva “povero pretazzuolo sventato e riottoso”. E perché mai tanta rabbia? Perché Naselli, in un articolo pubblicato sulla Civiltà cattolica, aveva denunziato il traditore Mastruzzi come “massone e fondatore di una casa massonica”. Mastruzzi, che si sentiva invece cristianissimo, aveva reagito scrivendo una sdegnata lettera all’arcivescovo, ma dopo avere atteso a lungo la risposta non ci aveva visto più: «Perché dunque dopo quattro mesi di aspettare invano, tra le umiliazioni di una turba fanatica, una risposta qualunque alla mia lettera dignitosa, voi aggiungeste per soprassello all’odio il disprezzo, lasciandomi abbaiare alla luna? Ma Dio buono! Credete ch’io sia degno del vostro disprezzo, e ch’io sia uomo da sopportarlo? V’ingannate a partito. Ora il dado è gittato. Avvenga che ne voglia avvenire». E infatti, leggere il poema per credere.

Immagina dunque il Mastruzzi che durante una notte tormentosa gli appaia in sogno la Musa, che gli fa dono di una berretta magica benedetta dal Papa. La berretta ha il potere di renderlo invisibile, permettendogli di assistere al processo intentato contro di lui dall’arcivescovo sotto le volte della cattedrale:

 

Nun vistu vidirrai cosi tremenni,

sta sodu, bada a tia, senti ed apprenni.

 

E infatti dopo un po’ l’uomo invisibile viene a trovarsi all’interno della chiesa, dove una folla di preti e di monaci si va accalcando alla presenza dell’arcivescovo:

 

Cu firriola culuri di pici,

cu martiddini ‘n testa li stravisi,

ippocritazzi javanu acchianannu

unni Naselli li stava aspittannu.

 

Lontani dallo sguardo e dal giudizio dei fedeli, quei “tinti curvacchiuna” si abbandonano tra loro alle confidenze, alle chiacchiere, alle più sfacciate rivelazioni dei loro molteplici e abominevoli vizi. Ecco il ritratto di un monaco diabolico:

 

 

Si tu sapissi quantu stu cricchiutu

è scaltru, marriddusu, ‘ntabaccatu,

‘ntricanti, ficcareddu, privinutu,

teni rinali, tostu, e scippa-tacci,

tu ti farrissi la cruci a la facci.

 

E c’è il prete furbo che fa il doppio gioco: bacia la mano al vescovo, ma poi nella cricca dei suoi amici politici sputa veleno contro il Papa e si dichiara ardente patriota italiano:

 

Davanti a chisti ssa testa di rapa

si mustra sficatatu italianu,

e parra ammuzzu contra di lu papa,

chiamannulu dispoticu e inumanu.

 

C’è il giovane prete aristocratico, scapestrato e libertino, che veste come undandy, e quando è in collera si lascia andare alle peggiori bestemmie. Altri due parlottano fra loro ridacchiando, intenti a vantarsi delle loro avventure erotiche con le più laide puttane della città:

 

Discurrinu di Rosa la baggiana,

di la Cucchiera, e de la Girgintana.

 

Uno, appartatosi in un angolo, sta divorando un “beddu grassu e grossu pagnuttuni”. Altri sono campioni di avarizia, di vanità, di maldicenza, perfino di ateismo. Ma la bolgia più orrenda di quell’inferno dantesco è una grande sala affollata di preti violenti:

 

Unni attiggiati a gran divuziuni,

cu l’occhi ‘n terra e cu li manu ‘n cruci,

c’era almenu un migghiaru di parrini

cu’ propositi infami ed assassini.

 

Davanti a quella turpe adunanza, Naselli in qualità di giudice supremo inscena quindi il processo, che ben presto degenera in farsa, in un comico parapiglia con botte e colpi di scena degni del teatro dei pupi. E in quel fracasso, approfittando della sua invisibilità, Mastruzzi riesce perfino a sferrare un terribile pugno in faccia al gesuita Birrittuni, che insieme a Patri Gravusu gioca il ruolo della pubblica accusa. Birrittuni sanguina copiosamente dal naso. Accorre un medico, che diagnostica un’epistassi, ma il prete s’infuria:

 

Ma Birrittuni chi sintia li spassi

di ddu duluri, ch’è ‘na maravigghia,

ci grida: chi pistassi! chi pistossa!

Dutturi, fu un gran pugnu ‘n carni ed ossa!

 

Lasciamo qui Mastruzzi e le sue fantasie anticlericali. Consideriamo che in quegli anni il conflitto tra la Chiesa e lo Stato italiano era a dir poco rovente. Immaginiamo lo sconforto che doveva regnare tra i “parrini” durante la prima domenica di giugno, quando in tutte le piazze d’Italia si celebrava con canti, comizi, parate e banchetti la festa solenne dello Statuto Albertino. Un altro singolarissimo poeta siciliano descrive bene quel clima, in un’ode dedicata alla festa del 4 giugno 1882. Perché singolarissimo? Perché si trattava di un totale analfabeta. Si chiamava Carmine Papa ed era uno zappatore di Cefalù. Ma era curioso, informato, estroso; aveva il dono innato della poesia. Non sapendo scrivere, dettava i suoi versi a uno scrivano. E poi, a furor di popolo, li pubblicava.

Ed ecco la seconda strofa della sua ode patriottica, che traggo dall’opuscolo intitolato Nuove poesie siciliane, edito a Palermo presso la Tipografia del Giornale di Sicilia nel 1883:

 

O bedda Italia, tu fai gran fistinu,

si tocca e si manìa già cu li manu.

Mi diceva un picciottu stamatinu:

oggi allegro è ogni italianu,

fa festa Roma, fa festa Turinu,

festa Venezia, e fa festa Milanu.

Evviva lu reali Principinu,

Margarita Rigina e lu Supranu!

 

Bell’Italia, davvero. O ingenuità di un uomo semplice e pieno di entusiasmo? Nel dubbio, divago, e ripenso a un altro poeta del popolo, non contadino ma operaio, maestro salinaro impiegato per lungo tempo presso la salina Ettore di Marsala. Ebbi la gioia, la fortuna di conoscerlo casualmente in una mattina di luglio del 1987. Era nato a Trapani nel 1933, il suo nome era Turi Toscano. Ricordo la sua allegria, la gentilezza antica e fiera, la luce serena che gli brillava negli occhi mentre mi recitava i suoi versi e mi offriva da bere il vino ambrato e forte che teneva sempre pronto per gli ospiti, nel magazzino d’attrezzi della salina:

 

Quannu ‘nta la mia menti c’è fuscura

e fazzu stentu pi la giusta mira,

mi giru ‘ntunnu e penzu a la natura.

Lu suliceddi viu, quannu fa sira,

comu s’ammuccia ‘n mezzu la russura

e lu me cori veramenti spira,

un gran misteru chi mi fa ‘ncantari,

chissu è lu munnu e nun si po’ canciari.

 

Lampi di vera poesia. Mi donò una copia d’un suo libro pubblicato nel 1984, Ora chi si fa sira, con dedica d’affetto. Pochi anni fa venni a sapere della sua morte. Un male improvviso lo aveva stroncato nel giro di pochi mesi. Ma sono certo che il poeta salinaro fosse pronto; pochi come lui conoscevano le asprezze imprevedibili della vita. Lo aveva scritto in una lirica di otto versi, dedicata a uno “scoglio tagliente”:

 

Pi natura nun sugnu vilinusu

nascivi lisciu sanu e assai piazzatu;

fu curpa di lu mari capricciusu

chi rasca e mi cattigghia d’ogni latu;

si sugnu addivintatu rascaddusu

lu stessu d’un rasolu ch’è azzannatu,

senza vuliri fari lu dannusu

cu s’avvicina a mia veni struppiatu.

 

Un vero poeta.

 

Post scriptum

A distanza di molti anni dall’episodio del ciabattino di Boston, nel settembre del 2011 ho scoperto tra le vecchie carte di mio padre (dunque, non ancora del tutto esplorate!) un biglietto da visita ingiallito e un po’ strappato, su cui si legge chiaramente:

Cav. Nino Atria

Scrittore

delle epigrafi sulle targhe di bronzo

pei cimiteri

del Carso e del Trentino

in rappresentanza

della

Sicilia

(Castelvetrano)

Sul retro del biglietto, l’abbozzo di un disegno floreale tracciato a matita, e un’elegante firma di mio padre a penna: C Jevolella, con uno svolazzo intorno.

E, come se ciò non bastasse, ecco saltare fuori un poemetto di quasi centocinquanta versi, scritto a mano su tre fogli grandi di carta a righe, firmato in fondo da Pino Calabrò (su chi fosse costui, dovrò indagare), e datato 30 marzo 1946. Nostalgicamente dedicato “all’amico dell’età mia prima” (probabilmente a mio padre), il poemetto ondeggia senza sosta fra il tono sentimentale, il ridanciano e quello addirittura scollacciato e osé. Qualche esempio? Eccovi accontentati:

 

Nei debiti mi sono impelagato,

per aver penne e la carta comprato:

un litro di petrolio s’è sucato

il midollo del lume affumicato […]

Pietade non hai avuto,

porco, crasso e fottuto,

del mio cervello spremuto,

del mio core dolente,

del mio dente

cariato,

del denaro sprecato

nei francobolli di Stato,

che invano hanno accompagnato

all’amico desiato

il messaggio profumato

di primavere lontane,

di baci di puttane,

di poppe rotonde,

di nudità immonde,

di onde schiumose

su le rocce spugnose

del nostro Lilibeo amato,

più volte tentato

nell’ora di tempesta,

quando per la testa

ci frullava il disio

giocondo e pio […]

Poi, di colpo, gli accenti di un’ode moralistica e drammatica, sicuramente ispirati allo spettacolo delle rovine di Marsala dopo il bombardamento del ’43:

 

Dirute son le case

che gli omin [sic!] costruiro.

Dirute l’han le belve

che umani s’appellaro.

Lavori di decenni:

furore d’un minuto!

Lugubre la morte gira

dentro i palazzi monchi […]

 

Devo proprio scoprire chi fu questo Pino Calabrò. Qualche anima di buon cristiano può aiutarmi nell’indagine?