Assistito dai suoi avvocati, Gino Bosco e Stefano Pellegrino, D'Alì oggi ascolterà la requisitoria del sostituto procuratore Andrea Tarondo, che sostiene l'accusa insieme ai colleghi della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo. Dopo, la parola passer alle parti civili. Infine, nella prossima udienza, comincerà l'arringa difensiva, e poi il verdetto finale, al momento molto incerto, dato che D'Alì arriva comunque a questo processo con un'imputazione coatta dopo che diverse volte era stata chiesta l'archiviazione del suo fascicolo.
Oggi, a Palermo, durante l'udienza è previsto un sit in di Libera. L'associazione, rappresentata a livello provinciale da Salvatore Inguì, è parte civile nel processo, e ha dato appuntamento ai suoi sostenitori per un sit in nella scalinata del Palazzo di Giustizia di Palermo, per sensibilizzare l'opinione pubblica sul procedimento.
Nell'ultima udienza, dinanzi al gup Giovanni Francolini, ha tenuto la sua requisitoria il Pm Paolo Guido. Secondo la Procura D'Alì ha contribuito “consapevolmente e fattivamente” al rafforzamento della presenza di Cosa nostra nel territorio “mettendo a disposizione anche proprie risorse economiche ma anche il suo ruolo politico". La principale delle accuse rivolte al senatore D’Alì è quella di avere avuto rapporti stretti con i boss Messina Denaro di Castelvetrano: Francesco Messina Denaro e suo figlio, Matteo, oggi ritenuto il capo di Cosa nostra, sono stati suoi campieri. Risulta agli atti tra D’Alì e i Messina Denaro la vendita fittizia di un terreno, nella contrada Zangara di Castelvetrano. Si tratta di una vendita che per la procura servì a coprire una operazione di riciclaggio per 300 milioni di vecchie lire. Per la difesa la vicenda “è rimasta penalmente non trattata per 11 anni e che fu oggetto anche di una archiviazione”. Il parlamentare raccontando dei contatti con i Messina Denaro ha parlato di un “rapporto” ereditato dai suoi avi e che la famiglia D’Alì subì anche la violenza mafiosa con il sequestro di Antonio D’Alì Staiti. Per i magistrati dell'accusa sono provati i suoi rapporti con altri mafiosi come il trapanese Vincenzo Virga, il valdericino Tommaso Coppola, il pacecoto Ciccio Pace e con l’ex uomo d’onore adesso “collaborante”, ex patron del Trapani Calcio, Nino Birrittella. Le altre accuse riguardano soprattutto gli appalti e per “avere cercato di inibire ed ostacolare le iniziative a sostegno delle imprese sequestrate o confiscate (quali ad esempio la Calcestruzzi Ericina)”. Al senatore viene contestato di “avere contribuito alla espansione di altre imprese, come la Sicilcalcestruzzi e la Vito Mannina”, “intervenendo su procedimenti relativi ad appalti pubblici, come quelli inerenti la Funivia di Erice, la valutazione di congruità di un edificio destinato a caserma dei carabinieri a San Vito Lo Capo, la erogazione di finanziamenti pubblici legati al patto territoriale Trapani Nord, la messa in sicurezza del porto di Castellammare del Golfo”. Tutto questo – secondo l’accusa “per favorire il controllo di attività economiche da parte di Cosa Nostra”. “D'Alì con la mafia non c’entra nulla, anzi l’ha subita e la sua unica colpa è di non essersi reso conto di chi si muoveva intorno a lui”, dicono i difensori.