No al «carcere duro» per i boss affetti da gravissime malattie. Lo ha stabilito una sentenza della Cassazione che oggi ha accolto il ricorso di Filiberto Maisano, 81 anni, ritenuto un capomafia della `ndrangheta reggina, per il quale l’allora ministro Giustizia Angelino Alfano nel dicembre 2010 dispose il regime carcerario del 41 bis.
Il boss detenuto a Novara ha chiesto gli arresti domiciliari
Maisano è detenuto nel carcere di Novara e si è rivolto alla Cassazione per chiedere di modificare la misura cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari «per gravi motivi di salute». Piazza Cavour ha accolto il suo ricorso e ha disposto un nuovo esame davanti al Tribunale della Libertà di Reggio Calabria. In particolare, la Suprema Corte sottolinea che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità» e che anche quando si è in presenza di esponenti di spicco della criminalità, è necessario equilibrare le esigenze di giustizia, quelle di tutela sociale con i diritti individuali riconosciuti dalla Costituzione». Maisano, come sottolinea la sentenza 43890, presenta «un quadro patologico serio caratterizzato da patologie cardiache, artrosiche, discali e neurologiche» che nel tempo lo hanno portato anche alla depressione.
Il diritto alla salute del detenuto è prevalente sulle esigenze di sicurezza
La Cassazione, accogliendo il ricorso di Filiberto Maisano, ricorda che il nostro «ordinamento penitenziario» prevede che le pene non possano «consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e che devono tendere alla rieducazione del condannato», attenendosi sempre al principio che «quello alla salute è diritto fondamentale dell’individuo». Piazza Cavour ricorda che «è nel rispetto di un siffatto quadro normativo che il legislatore, pur nel contesto nazionale di fenomeni diffusi e radicati di criminalità organizzata di estremo allarme socio-economico, fenomeni sconosciuti ai maggiori Paesi occidentali, ha articolato una disciplina della carcerazione preventiva attraverso la quale equilibrare le esigenze di giustizia, quelle di tutela sociale con i diritti individuali riconosciuti dalla Costituzione». A Filiberto Maisano il tribunale della libertà di Reggio Calabria lo scorso 20 marzo aveva negato la modifica della misura cautelare in carcere con quella dei domiciliari ritenendo che le patologie di cui era affetto, pure se serie, potessero essere curate in carcere. Contro il no ai domiciliari la difesa di Maisano ha fatto ricorso con successo in Cassazione sostenendo che «il diritto alla salute del detenuto è prevalente anche sulle esigenze di sicurezza».
Le motivazioni della decisione della Cassazione
Piazza Cavour ha giudicato il ricorso «fondato». In particolare, la prima sezione penale sottolinea che «è fatto divieto di disporre o mantenere la medesima custodia carceraria in costanza di persona affetta da malattia particolarmente grave tale da rendere le sue condizioni di salute incompatabili con lo stato detentivo ovvero non adeguatamente curabili». Anche in quest’ultima ipotesi, evidenzia il relatore Francesco Maria Bonito, «la ricorrenza di esigenze cautelari di «eccezionale rilevanza» giustificano forme detentive ma soltanto di minore rigore (arresti domiciliari in luogo di cura)». Nel caso in questione la Cassazione fa notare che Maisano è «persona ultra 80enne affetto da un complesso patologico di sicuro rilievo, di forte incidenza individuale, sicuramente debilitante di essenziali funzioni vitali: l’apparato cardiovascolare, quello articolare deputato alla deambulazione, quella neurologica incidente direttamente sulla percepibilità della funzione emendativa della pena e quella, infine, psicologica, essenziale per la condizione stessa della vivibilità quotidiana».
I supremi giudici «bacchettano» il Tribunale della Libertà
A questo proposito i supremi giudici bacchettano il Tribunale della Libertà reggino perché «nonostante siffatte oggettive premesse ha limitato la sua pur meticolosa disamina alla sola circostanza della compatibilità della detenzione carceraria interinale con lo stato di salute, per poi pervenire, all’esito di un faticosissimo iter procedimentale scandito da perizie e consulenze, ad un giudizio di compatibilità ad avviso del collegio soltanto parziale e non esaustivo». Da qui la decisione di Piazza Cavour di disporre un nuovo esame davanti al Tribunale della libertà di Reggio Calabria visto che «appare sottovalutato il dato essenziale dell’età del detenuto, ultra ottuagenario, e del pari sottovalutata appare la diagnosticata depressione, l’una e l’altra, nel quadro patologico accertato, complesso e grave, direttamente incidenti sulla normale tollerabilità dello stato detentivo e verosimilmente cagione di una sofferenza aggiuntiva intollerabile per il nostro sistema costituzionale». La Cassazione conclude ricordando al giudice del successivo grado di giudizio che «la valutazione di compatibilità detentiva deve essere particolarmente rigorosa quanto alla sussistenza di una situazione di pericolosità e quanto alla sofferenza ulteriore che in un anziano può provocare lo stato di detenzione».