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05/04/2014 02:17:00

Culicchia, vent’anni dopo siamo sempre più per terra

 Quasi come Dumas. Vent’anni dopo ci ritroviamo, Giuseppe Culicchia e io, in un altro bel giorno d’incerta primavera, quasi la stessa faccia, e una vita in mezzo. Lui arriva, come la prima volta, in bicicletta. Io con l’auto, come sempre mal parcheggiata. È cambiato soltanto il bar, perché nel frattempo è cambiata Torino. Non più alla Crocetta, bensì in piazza Quattro Marzo, in quel Quadrilatero romano che allora non era né chic né trendy. Non era, e tanto fa.  

 

Uguale invece il motivo dell’incontro. Un libro. Sempre lo stesso. Eppure diverso. Come noi. Come la vita. Il libro è Tutti giù per terra. Il romanzo seminale di una generazione, che sottrasse Giuseppe Culicchia a un destino da commesso di libreria.  

 

La prima volta che ci incontrammo il libro era uscito da poco. Era andato benissimo, e presto sarebbe diventato un film che segnò la fortuna del regista Davide Ferrario. 

 

Vent’anni dopo, il prossimo primo aprile, Mondadori pubblica Tutti giù per terra remixed. Non è una ristampa celebrativa. È - come noi, in questo giorno d’incerta primavera - un’altra cosa, uguale ma diversa. Culicchia lo ha riscritto. Ambientandolo al giorno d’oggi. Il protagonista è sempre Walter: giovane, emarginato, spaventato dalla vita adulta. Anche lui infinitamente diverso da quello del 1994. Eppure uguale. È il girotondo della vita. Ci ritroviamo, alla fine, tutti giù per terra. Sempre. 

 

Quando ci incontrammo la prima volta Culicchia era appena diventato un «giovane scrittore». Se l’è portata dietro a lungo, quell’etichetta. Giuseppe Culicchia, il giovane scrittore. Poi, come dio e anagrafe vogliono, è finita. 

 

«E adesso che cosa sei?», gli domando mentre ordiniamo. 

 

«Sono finalmente un vecchio scrittore». 

 

«Un vecchio scrittore in crisi che non ha più storie da raccontare e riscrive quelle che raccontava da giovane?», gli butto lì con l’aria saputa. 

 

Lui mi guarda con un mezzo sorriso, e mi risponde serio. Sono vent’anni che risponde serio alle mie battute idiote. Unico indizio che stiamo giocando è quel mezzo sorriso. «Non penso di aver finito le storie. Ho già scritto il mio prossimo romanzo». 

 

«Quello che pubblicherai dopo Tutti giù per terra remixed?». 

 

«Quello». 

 

Così gli domando come mai, se ha già un nuovo romanzo pronto, ha voluto riscrivere quello più vecchio di tutti. «L’idea mi è venuta nel 2011: per le celebrazioni del Centocinquantenario dell’Unità mi hanno commissionato un lavoro per cui ho dovuto rileggere proprio Tutti giù per terra. Quella rilettura ha messo in moto certi meccanismi».  

 

«Non l’hai trovato invecchiato?». «Non direi. Funzionava ancora, meglio di altri». Gli faccio notare che però, intanto, il mondo è andato avanti. «Sì - risponde - ma non così tanto. Ti faccio un esempio: il romanzo lo scrissi ai tempi di Tangentopoli, e direi che poco è cambiato da quel punto di vista. E si parlava di una sinistra che si stava dissolvendo…». «Proprio come oggi - ammetto -. La più lunga dissolvenza della Storia». 

 

Lui assente: «Siamo un Paese bloccato. Eppure è cambiato tutto. Walter nel romanzo del ’94 è un precario per scelta, il suo incubo è di finire come suo padre, inchiodato al posto fisso. Oggi ha l’angoscia opposta: sa che sarà precario a vita, non avrà mai una certezza, non potrà progettarsi un’esistenza. In vent’anni sono scomparsi diritti che davamo per scontati». 

 

Già. Si sogna in piccolo, oggi. Il padre di Walter, che nel ’94 lo esortava a una carriera da professionista, oggi lo vorrebbe tronista o al Grande Fratello. Lui stesso, il padre, disoccupato a cinquant’anni, ha come unica ambizione essere chiamato dalla De Filippi a Uomini e donne per raccontare il suo misero matrimonio. Almeno stavolta non ti chiederanno se è un romanzo autobiografico, dico a Culicchia. Scuote la testa: «Non mi è mai piaciuto il gioco del “quanto c’è di autobiografico?” in un romanzo. Non essere più un giovane scrittore aiuta. Oggi sono più distante da Walter: una distanza che ho annullato trovando l’umiltà per ascoltare la sua voce. Non la mia, ma quella di un personaggio. Anche se c’è qualcosa di uno scrittore in ogni suo personaggio». 

 

«Tipo il cattivo rapporto con la tecnologia? Il Walter del 2014 la rifiuta. Non ha neppure il cellulare. Anche tu sei antitecnologico?», domando. «No, con la tecnologia io ho un rapporto sereno. Sono su Facebook. E non scrivo su Twitter solo perché non sono così intelligente da dire qualcosa di sensato in 140 caratteri. Ma oggi se rifiuti la tecnologia ti considerano un diverso, un emarginato. E Walter è un emarginato». 

 

L’altra protagonista del libro è Torino. Mai nominata nel ’94, descritta con realismo nel 2014. «Allora il cambiamento della città era appena iniziato, in un paesaggio di fabbriche ormai vuote. Oggi Torino cerca ancora un’identità, ma le fabbriche non si vedono più. Sono diventate qualcos’altro». 

 

Siamo alla fine dell’intervista. Giuseppe deve rincasare: vengono a montargli i mobili. Mentre ci salutiamo, gli chiedo qual è la differenza più importante tra i due versioni del romanzo. «Il finale. Nel ’94 finiva male, nel 2014 bene». 

 

E così spero sia di noi. Tra vent’anni verificheremo.

 

Gabriele Ferraris - La Stampa