Come ogni anno, mi ritrovo ad assistere, perplessa, a manifestazioni che ripercorrono ed inneggiano ad un evento storico, lo sbarco di Garibaldi con i suoi Mille, che ha segnato l’inizio della riunificazione d’Italia. Preciso subito, che non contesto affatto il mio paese, l’Italia, nella sua idea più nobile, cioè l’Italia - Patria, una ed indivisibile. Quando studiavo il Risorgimento, come tutti gli italiani, mi sono innamorata della gente che rischiava la vita per scrivere sui muri “VIVA V.E.R.D.I”. Ho tifato per Cavour e ammirato la sua intelligenza, mi sono stupita per gli atti di eroismo che tanti patrioti lombardi, veneti e un po’ sparsi per tutta la penisola, hanno compiuto, fino a perdere la propria vita, per l’ideale dell’Italia unita.
Quello che mi chiedevo, da ragazzina, studiando questo meraviglioso periodo storico, era perché l’11 maggio fosse festa solo a Marsala e non a Torino, da cui tutto partì. Già allora, pensavo che i piemontesi e lombardi avessero motivi più validi di noi siciliani e meridionali in genere, per festeggiare lo sbarco di Garibaldi e l’annessione allo Stato Sabaudo del Regno delle due Sicilie: i primi, perché erano stati gli artefici di questa vittoria, i secondi, perché erano stati liberati dal dominio austriaco. Ma noi, siciliani, calabresi, campani, da che dominio eravamo stati liberati? Quando Garibaldi entrò a Marsala, trovò un paese vuoto, non c’erano né bandiere, né tantomeno il popolo ad inneggiare alla liberazione. Perché? mi chiedevo. Vediamo insieme come eravamo prima dell’unificazione e cosa successe successivamente all’unificazione d’Italia. Capiremo cosa festeggiamo in questi giorni….
Nell’anno 1100, mentre il Nord brancolava nel buio del Medioevo, i siciliani avevano già il primo parlamento della storia, il primo parlamento d’Europa.
Fu Ruggero I che cominciò a gettare le fondamenta di uno stato plurietnico e poliglotto, nel quale Normanni e Greci, Saraceni e Latini avrebbero, sotto un controllo centralizzato, conservato le proprie fedi e tradizioni culturali, in perfetta armonia e reciproco vantaggio.
Sarà Ruggero II, incoronato re nella notte di Natale del 1130, con la sua saggezza e determinazione, a compiere il passo qualitativo più importante nell'opera di edificazione del Regno e, cioè, la definizione di quelle norme valide per tutte le regioni del Sud (Assise di Ariano).
Il "Regno di Napoli" o "delle Due Sicilie" o "Sud" che dir si voglia era diventato nei secoli indipendentemente da chi lo governava, un vitalissimo organismo geopolitico.
Il Sud disponeva oramai di una sostanziale autonomia, di un'identità forte, fatta di popolazioni amalgamate, di un'economia agricola e marinara.
Nel luglio del 1734 iniziò l'avventura dei Borbone nel Sud. Un'avventura durata 126 anni, fino al 1860.
Carlo III, "il re perpetuo", fu uno dei più saggi, autorevoli ed illuminati sovrani d'Europa. Si circondò di uomini illustri ed esperti, sostenne la cultura, migliorò le leggi, costruì grandi opere come la Reggia di Caserta dotata di un acquedotto di ventisette miglia e il teatro San Carlo. Si avviarono gli scavi di Ercolano e Pompei, si costruì l'Albergo dei Poveri, commissionato a Ferdinando Fuga, dove furono accolti gli indigenti di tutto il Regno e che rimane oggi il più grande edificio esistente del settecento. Commissionò la stesura di un codice ad autorevoli giuristi, fondò nelle province scuole ed accademie, tutelò le arti e il commercio, incentivò l'agricoltura ma, soprattutto, limitò i privilegi dei baroni.
Carlo III, dunque, seppe continuare, rafforzandola, quell'identità nazionale iniziata nel 1130, regalando al Sud e a Napoli uno dei periodi più splendidi della loro storia, con una definitiva indipendenza ed autonomia che sarebbe continuata, con alterne vicende, con luci e ombre, anche con gli altri sovrani fino al 1860, quando il processo di unità nazionale italiano pose fine a quella straordinaria vicenda storica durata quasi otto secoli. In quegli anni, esattamente nel 1856, in occasione dell’Esposizione Internazionale di Parigi, il Regno delle Due Sicilie ricevette il premio come terzo paese più industrializzato del mondo, dopo Inghilterra e Francia. Il meridione possedeva una flotta mercantile pari ai 4/5 del naviglio italiano, una flotta che era la quarta del mondo. Il Sud era il primo produttore in Italia di materie prime e semi-lavorati per l'industria. Avevamo circa 100 industrie metal meccaniche che lavoravano a pieno regime (era attiva la più grande industria metal meccanica d’Italia). Avevamo industrie tessili, manifatturiere, estrattive. Avevamo, distillerie, cartiere. Avevamo la prima industria siderurgica d’Italia.
Il primo mezzo navale a vapore del mediterraneo (una goletta) fu costruito nelle Due Sicilie e fu anche il primo al mondo a navigare per mare. La prima nave italiana che arrivò nel 1854, dopo 26 giorni di navigazione, a New York, era meridionale, e si chiamava, guarda un po’!, “Sicilia”. La bilancia commerciale con gli Stati Uniti era fortemente in attivo e il volume degli scambi era quasi il quintuplo del Piemonte. Il cantiere di Castellammare di Stabia, con 1.800 operai, era il primo d’Italia per grandezza e importanza. Ancora, il tasso di sconto praticato dalle banche era pari al 3%, il più basso della penisola; una “fede di credito” rilasciata dal Banco di Napoli era valutata sui mercati internazionali fino a quattro volte il valore nominale.
Il regno napoletano, fra tutti gli stati italiani, vantava il sistema fiscale con il minor numero di tasse: ve ne erano soltanto cinque. Purtroppo, fin dal primo anno di unificazione, il neonato stato italiano introdusse ben 36 nuove imposte ed elevò quelle già esistenti. In appena quattro anni, la pressione fiscale aumentò dell’87%, ed il costo della vita ebbe un incremento del 40% rispetto al 1860, i salari persero il 15% del potere d’acquisto.
Dopo l’unificazione d’Italia, l’industria meridionale e persino l’agricoltura furono letteralmente abbandonate e penalizzate con una politica economica che favorì il Nord a danno del Sud, come risulta da un’inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese dello stato voluta da Francesco Saverio Nitti, il primo Presidente del Consiglio radicale in Italia.
Per diversi decenni si verificò un continuo drenaggio di capitali dal meridione al Nord dovuto proprio ad una scelta di politica economica dello Stato, mentre sul piano delle imposte il Mezzogiorno e la Sicilia contribuivano in maniera di gran lunga superiore alle regioni del Nord.
Non andò meglio per i lavori pubblici, in quanto gran parte delle spese furono fatte nell’Italia Settentrionale e Centrale.
In sostanza il bottino dei Savoia fu veramente enorme, se si considera che il danaro trafugato dalle casse del “Regno delle Due Sicilie” ammontava a 443 milioni di lire oro, vale a dire due volte superiore a quello di tutti (dico tutti!) gli Stati preunitari della penisola messi insieme; lo Stato savoiardo ne possedeva solo 20 milioni.
Quando l'11 maggio del 1860 il generale Giuseppe Garibaldi sbarcò con i “Mille” nel porto di Marsala, sapeva benissimo che, per chiudere con successo la sua impresa, gli sarebbe stato assolutamente necessario l'appoggio e la partecipazione attiva dei siciliani. Questo sarebbe avvenuto solo se fosse stato accolto non solo come il liberatore dalla tirannide borbonica, ma anche come colui che poteva dare le possibilità di far nascere una nuova società, libera dalla miseria e dalle ingiustizie. Con questo intento, il 2 giugno, aveva emesso un decreto dove prometteva soccorso ai bisognosi e la tanto attesa divisione delle terre.
Nell'entroterra siciliano si erano, dunque, accese molte speranze di riscatto sociale da parte soprattutto della media borghesia e delle classi meno abbienti. A Bronte, sulle pendici dell'Etna, la contrapposizione era forte fra la nobiltà latifondista rappresentata dalla britannica Ducea di Nelson, proprietà terriera, e la società civile. Il Comitato di guerra, creato in maggio per volere di Garibaldi e Crispi, decise di inviare a Bronte un battaglione di garibaldini agli ordini del genovese Nino Bixio per sedare la rivolta e fare giustizia in modo esemplare. Secondo Gigi Di Fiore (Controstoria dell'unità d'Italia) e altri studiosi, gli intenti di Garibaldi probabilmente non erano solo volti al mantenimento dell'ordine pubblico, ma anche a proteggere gli interessi commerciali e terrieri dell'Inghilterra (Bronte apparteneva agli eredi di Nelson), che aveva favorito lo sbarco dei Mille, e soprattutto a calmarne l'opinione pubblica. Come è possibile che un manipolo di 1000 garibaldini abbia sconfitto un esercito di 50.000 borbonici?
È una domanda cui le rievocazioni celebrative del Risorgimento italiano non danno risposte convincenti. E non è la sola, con sé ne porta molte altre: con quali poteri, con quali mafie dovettero allearsi Garibaldi e Cavour?
Perché ci vollero cannoni e fucili per domare la ribellione contadina nelle regioni del Mezzogiorno subito dopo l’annessione? Quella che la storia, scritta dai vincitori, ha battezzato “unificazione d’Italia” fu in realtà una guerra di conquista condotta dal Piemonte contro gli Stati sovrani del Centro e del Sud. E nei decenni successivi, dai manuali scolastici ai romanzi, fino agli sceneggiati televisivi, gli eventi che non si accordavano con la retorica patriottica sono stati nascosti o deformati.
Una feroce guerra civile lunga quasi dieci anni. Migliaia di morti. Migliaia di prigionieri rinchiusi nei lager del Nord Italia. Intere città rase al suolo. Atti di barbarie, come le avvisaglie prenaziste del generale Cialdini. Il saccheggio dell'intera ricchezza di quello che era stato, in assoluto, il più ricco degli stati italiani.
Per Mafia e Camorra, poi, cui fu affidato subito l'ordine pubblico e la gestione del plebiscito, si aprì una nuova epoca: il potere pubblico, nella nascente Italia unita, aveva bisogno "istituzionalmente" dei loro servizi e pagava, pagava bene, come nel caso dei trentaquattro miliardi (a valore dei primi del ‘900) girati alla Camorra.
Venne, poi, l'emigrazione forzata. Nel solo periodo che va dal 1876 al 1920, circa un milione e ottocentomila meridionali furono costretti ad emigrare in lontane terre.
Tutto ciò è potuto accadere anche grazie alle gravi responsabilità di molti meridionali presenti nella politica, nelle istituzioni, nell'economia, nell'informazione, che hanno tradito il loro popolo, svendendo per i propri tornaconti la dignità di milioni di persone.
A tutto questo si aggiunse la demonizzazione del meridionale, inteso come"la palla al piede", le teorie razziste, giunte come si sa fino ai giorni nostri. Non sono pochi quelli che, anche se intellettuali di fama come Giorgio Bocca, dicevano che i “terroni” puzzano, quelli che dicono di lavorare e pagare anche per noi meridionali.
Ma chi a Torino innalzasse gli occhi alla grandiosa Basilica di Superga, sappia che è stata costruita da un siciliano, l'architetto Filippo Juvara da Messina, cui si debbono pure molte altre cose belle, in Italia e in Spagna, come il Castello di caccia di Stupinigi, e il Palazzo Reale di Madrid; che la stessa Università di Torino è stata riformata in senso europeo nel 1719 da un siciliano, il conte Francesco d'Aguirre da Salemi; che a Bologna la più bella fontana cittadina, quella del Nettuno, è stata realizzata nel 1566 dall'architetto palermitano Tommaso Laureti; che a Firenze l'Osservatorio Ximeniano è stato fondato nel '700 dallo scienziato trapanese Leonardo Ximenes; che il Policlinico di Roma è stato fondato dal romano Guido Baccelli e dal siciliano Francesco Durante da Letojanni; che la monumentale Enciclopedia Italiana è stata realizzata negli anni Trenta dal lombardo Giovanni Treccani per la parte finanziaria, ma da tre siciliani, Giovanni Gentile da Castelvetrano per la parte culturale, Calogero Tumminelli da Caltanissetta per la parte editoriale, e Antonino Pagliaro da Mistretta per la parte redazionale .
Forse, a questo punto, è più chiaro capire cosa festeggia Marsala ogni anno l’11 maggio.
Patrizia Bilardello