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13/05/2014 15:33:00

Diario di viaggio di Peppe Sciabica

Il disegno nasce con l’uomo e coincide con l’inizio di civiltà. Lo documentano i disegni rupestri di
Altamira, come dell’Addaura. Con l’età rinascimentale maturò il sapere disegnare, chiave d’accesso
per entrare nel regno dei saperi.
Le prodigiose invenzioni leonardesche si proiettano oltre l’età moderna e Ingres, nell’Europa-mondo di quel tempo,poteva ribadire che il disegno era la prova d’onestà dell’artista.

Ma, cos’è il sapere disegnare? I pochi veri disegnatori, sopravvissuti al dominio digitale, lo spiegherebbero ognuno a modo proprio. Relativamente più semplice invece riconoscere il buon disegno dal tratto fine, dalla forza perentoria, dalla mano generosa che dona voce all’esistente.

L’infinita varietà naturale e umana esiste di per sé, ma è il disegnatore esperto a cavarne l’unicità di valore alieno dall’ordinario.

Nel passaggio cruciale da un’azione muscolare a un racconto interno alle cose, segni e linee aspirano per antico statuto a diventare parole, cioè impronte dell’anima.
L’aneddoto vuole che Klimt, noncurante della legge di mercato,offrisse un suo dipinto per due disegni di Schiele,allievo prediletto.

Come dargli torto? Come non amare il disegno? L’omaggio degli organizzatori dell’Ente Mostra di Pittura Città di Marsala ai disegni relativi al Viaggio in Sicilia di Spencer J. Compton tende a specificarne le qualità.

Lord Compton fu naturalista, filantropo, esteta. Da eclettico mancò di disciplina, si limitò alla sola pratica del disegno, contrariamente all’altro aristocratico francese J. Houel ossessionato anche dall’acquarello. Manifestò, però, istinto e talento del disegnatore puro, come prova l’album di disegni del 1823 in mostra nelle spendide sale del Convento del Carmine.

L’occhio dell’osservatore paziente fu così sollecitato dalle numerose sfaccettature isolane, dalla discontinuità del paesaggio, dagli assetti geologici mutevoli, che si servì della mano capace dell’autodidatta per conservarne memoria. Sebbene il taccuino non ospiti, nei cinque mesi di soggiorno isolano, il segno uniforme del latifondo e del sottosviluppo, come annotò A. de Tocqueville in un viaggio di altro genere,la grafite non risparmia abilità tecniche né emozioni.

Si notino “Monte Pellegrino e il faro” e “Monti a Sferracavallo” dove la sapiente leggerezza di tratto attinge dal promontorio più bello del mondo, così lo definì Goethe , le poche presenze necessarie ad elevarle verso una dimensione evanescente, in una stagione imprecisata, dissolvendone l’ubiquità.

Il rigore delle geometrie bilanciato dal rispetto delle prospettive ingentilisce i luoghi, mentre l’uso del chiaroscuro esalta l’imponenza delle architetture antiche. E’ un esito che supera nettamente il dato naturalistico per consegnare a chi guarda un soffio di poesia e fausta disposizione.
Altro che fotografia,se questa registra freddamente in antitesi al mezzo manuale che seleziona con intelligenza.
Sono assenti figure umane; disegnò con diletto dal vivo e non a memoria. Ma, il divario tra ricche possibilità creative e povere realizzazioni imbarazza il visitatore.
Peppe Sciabica