Poche settimane dopo la strage di Capaci in cui morì il giudice Giovanni Falcone, nel giugno del 1992 l'allora ministro dell'Interno, Vincenzo Scotti, insieme con il ministro della Giustizia, Claudio Martelli, mise mano al decreto legge che prevedeva il carcere duro per i mafiosi, il cosiddetto 41 bis. «Ma quando spinsi per la sua rapida approvazione, fui isolato politicamente», ha ricordato lo stesso Scotti, ascoltato ieri come teste dell'accusa al processo per la trattativa tra Stato e mafia che si sta celebrando davanti ai giudici della Corte d'assise di Palermo. Più di sei ore è durata la deposizione. «Percepii - ha aggiunto, rispondendo alle domande del pm Nino Di Matteo - un clima di isolamento politico, però 59 deputati democristiani, scrissero una lettera di solidarietà a mio favore che fu pubblicata dal giornale "Il Popolo"».
Ucciso Falcone, «lo Stato doveva agire contro Cosa nostra. Il decreto sul 41 incontrò molte resistenze e venne approvato definitivamente nell'agosto 1992, dopo la strage di via D'Amelio».
Nella primavera del 1992, mesi prima delle stragi, Scotti lanciò l'allarme attentati con una circolare del 20 marzo. «Il 12 marzo di quell'anno - ha precisato - a Palermo era stato ucciso l'europarlamentare Salvo Lima. La mafia, insomma, aveva alzato il tiro. Poi al Viminale arrivarono una serie di segnalazioni, sia dalle forze dell'ordine sia dei servizi segreti. Per questo motivo io e l'allora capo della Polizia, Vincenzo Parisi, con una circolare segnalammo alle prefetture un imminente piano di destabilizzazione di Cosa nostra nei confronti dello Stato». Qualche giorno prima, ancora Scotti aveva lanciato l'allarme della possibilità di «cadaveri eccellenti» davanti alla commissione Antimafia. «In quell'occasione - ha raccontato l'ex ministro - misi la commissione davanti alla scelta se andare allo scontro frontale con la criminalità organizzata o convivere con essa. La notizia della circolare alle prefetture venne resa pubblica dal "Corriere della sera" e divenne un problema politico, per cui io fui chiamato a riferirne in Parlamento». Giulio Andreotti - il defunto sette volte presidente del Consiglio - definì una "patacca" la circolare.
Alla fine di giugno, mentre l'Italia era sconvolta dalla strage di Capaci, Scotti fu sostituito a sorpresa al vertice del Viminale e gli fu assegnato il ministero degli Esteri. «Non so perché avvenne questo cambio. Non mi fu data alcuna spiegazione», ha detto ieri l'ex ministro democristiano. Secondo i pm Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Di Matteo, il governo Amato decise di scegliere una linea più morbida nella lotta a Cosa nostra, soprattutto per quanto riguarda il cosiddetto carcere duro, cioè il 41 bis. Una strategia che avrebbe portato, all'avvicendamento al ministero dell' Interno di Scotti con Nicola Mancino (imputato, al processo per la trattativa, di falsa testimonianza) e a quello della Giustizia di Martelli con Vincenzo Conso, il quale, nel novembre del ‘93, decise di non rinnovare il carcere duro per 301 boss.
«Ciriaco De Mita mi disse che sarei dovuto andare agli Esteri - ha riferito Scotti - e mi chiese di scegliere tra il governo e il Parlamento, sostenendo che la segreteria nazionale della Dc aveva deciso l'incompatibilità tra gli incarichi di ministro e di deputato. Io non chiedevo di restare al governo, ma se c'era la possibilità di continuare nell'azione antimafia da me intrapresa, avevano tutta la mia disponibilità. Ma, purtroppo, non c'era disponibilità alcuna per cambiare posizione all'interno del governo. Per questo motivo risposi di no a De Mita».
Solo dopo molte insistenze del presidente del Consiglio, Giuliano Amato, Scotti accettò l'incarico, ma pochi giorni dopo presentò la lettera di dimissioni, suscitando la reprimenda dell'allora capo dello Stato. «Il giorno dopo le mie dimissioni - ha proseguito l'ex ministro - Scalfaro dichiarò che io ero passibile di alto tradimento per avere lasciato il posto di ministro degli Esteri perché creava una situazione internazionale molto difficile, incomprensibile all'estero. Cercai di incontrare Scalfaro, ma mi disse che mi avrebbe visto solo dopo le vacanze estive. Gli scrissi allora e lui mi rispose con una lettera autografa. Mi scrisse: "Se ci fossimo parlati, le cose non sarebbero andate così"».