Pausa sigaretta. Conversazione con Salvatore e Ramon. Il primo ha 15 anni ed è di Mazara del Vallo. Il secondo ha 16 anni ed è di Bogotà (Colombia). Sono due allievi in dispersione scolastica. Entrambi partecipano al progetto “Oltre la ferrovia”. Un percorso di orientamento al lavoro, che coinvolge la scuola professionale Filos di S. Agabio.
“Salvo sai che giorno è domani?”
“No. Perché?”
“Domani sarà il 19 Luglio. Il 19 Luglio è una giornata importante.”
“Perché? Ah! Arriva l’essssctate. Giusto ssscocio!”
“No Salvo. L’estate inizia il 21 Giugno.”
Salvo mi chiama “socio” da prima che iniziassi a insegnare. All’ inizio fu difficile, poi ridefinendo il mio ruolo, mi abituai. Mi piace la parola socio: fa molto anni 90. E’ una parola equilibrata perché mette in una posizione orizzontale ed equivalente. E’ una parola bella perché richiama l’idea di fiducia e d’ impudenza. E’ la parola giusta perché a metà strada tra “fratello” (quando la confidenza è troppa) e “Prof.” (quando la confidenza è scarsa).
La prima volta che incontrai Salvatore fu durante un colloquio di orientamento scolastico. Era insieme alla madre: una donna con splendide forme rotonde, i capelli mesciati e le ciglia rigorosamente tatuate. Salvo la teneva stretta per mano e mentre parlava, mescolava slang e idiomi forzando la s, come un fischio sibilante. Salvo è un ragazzo spavaldo e loquace, ma allo stesso tempo fragile come un bambino. Mi diverte un sacco Salvo!
“Il 19 Luglio è il giorno in cui è stato assassinato il giudice Paolo Borsellino. Un attentato mafioso conosciuto come “Strage di Via d’Amelio” avvenuto a Palermo nel 1992. Domani sarà il 22° anniversario.”
“Ah si, sssscocio! Me ne ha parlato anche la Prof delle medie. “Chiddu riccu chi c’harr’ubbaro u boissellino? Chiddu chi peisse un sacco i soidde? Vero?” (quello ricco a cui hanno rubato il borsello, che ha perso un sacco di soldi?)
Salvo quando conversiamo sulla Sicilia, usa il dialetto. Fa sempre così. Espressione della sua nostalgia. Conservazione dell’ identità mazarese.
“No. Borsellino è il cognome. Forse ti confondi con l’agenda rossa. L’agenda che gli hanno rubato, subito dopo l’attentato.”
“Ah già. Ricordo. Però Prof. guardi, non mi interessa.” Lo sguardo di Salvo si oscura.
“Prof? E’ la prima volta che mi chiami Prof.” Ribatto con smorfia ironica.
Ma perché non t’interessa?
“Non c’ho mai creduto a ste cose. E poi Prof. alla fine con la mafia si sssctava bene. Ha ragione Jack la Furia (Jack è il cantante del gruppo hip hop Club Dogo): “Fraté la mafia è bella, fraté la mafia è giusta! Tra un colpo di barella e un finto colpo di frusta!” La mafia ti dava lavoro. Te lo dico io ssssocio!”
Salvo gesticola in modo bizzarro. Unisce le dita della mano sinistra, sbattendola in modo sfacciato. Come un gangsta americano. Salvo sembra invaso da un’inquietante maniacalità.
“A Mazara comandava Totò Riina. Se volevi il pane c’era il pane. Se volevi l’acqua, c’era l’acqua. Basta che stavi tranquillo e le cose arrivavano.”
“Cosa intendi con tranquillo e in silenzio”?
“Ti fai i cazzssi tuoi. C’è da fare questo. Lo fai. C’è da fare quello, lo fai. C’è da cafuddare (picchiare), cafuddi. C’è da scavallare (rubare), scavalli. C’è da stare muti. Stai muto.”
Silenzio.
“Prof. a Mazara ci sono due detti: “a megghiu parola e chidda cu un ssssci dice” (cioè il silenzio, l’omertà) e “di parrini si pigghianu li vini” (dai padrini si riceve il temperamento che scorre nelle vene). Hai presente Tony Montana, Donnie Brasssco e Goodfellassssc. Quella roba li.”
“Quindi Salvo, se qualcuno ti dicesse cosa fare, ti piacerebbe?”
“No. Io ho fatto ssscempre quello che volevo. Mica sono babbo. Io non ho mai rotto i coglioni a nessuno. A nessuno. E nessuno ha mai rotto i coglioni a me. Si chiama rissscspetto.”
“Rispetto. Che bella parola! Come si conquista il rispetto Salvo?”
Salvo si nasconde sotto il berrettino Yankee. La fronte è bassa, gli occhi torbidi.
“Ci vuole tempo. Mica arriva così il risssscpetto. Ti fai gli amici. Se c’è da aiutare aiuti. Ma aiutisssscolo se ti fidi.”
“Quindi per avere rispetto non puoi farti i cazzi tuoi. Deve esserci un’altra persona? Giusto? “
“Sssci, sssci, ma solo della persona di cui ti fidi. E fidarsi non è facile. Io per esempio, una volta mi sono fidato troppo e l’ho presa nel culo.
“Hai ragione. Fidarsi non è facile. L’ho dice anche Jack la Furia: se avessi un cuore davvero sarei migliore ed avrei più di tutto quello che ho, però, chi ha troppo cuore si fida delle persone e in queste strade forse è meglio di no, di no. Se avessi un cuore sarei meglio di così ma non così sveglio forse non sarei nemmeno qui.(dal singolo “Se avessi un cuore”, dall’ album “Musica commerciale”, uscito nel 2013)
“Ma questa è un’altra storia. Lassscia stare.”
Colpito. Affondato. Salvo si ferma. Pensa. Mi guarda. Siamo in contatto.
Il discorso si riapre. Incalzo con un’altra domanda.
“E della mafia ti fidi Salvo?”
“Ssscietto. Cioè, anche la mafia ha fatto i suoi sbagli. Ma se avevi bisogno di una mano, la mafia te la dava sempre.”
Silenzio. Disagio.
Poi improvvisamente, come una forza più potente, interviene Ramon. Una presenza salvifica. Mirabolante.
“Ma che cazzo dici Salvo! Come fai a fidarti della mafia? Non sai di che cazzo parli! Tamarro! Te lo dico io perché vengo dalla Colombia. Fidati, zio.”
“Calma Ramon!”. Replico, sorridendo. Cerco di smorzare i toni.
Ma Ramon è un fiume in piena. I muscoli del volto contratti, gli occhi serrati. E’ un guerriero indios.
Ramon è un narratore acuto e preparato. Ramon ci racconta il problema della corruzione, il narcotraffico, il contrabbando delle armi tra Colombia e Brasile, la politica post Chavez, le proteste, le bugie e i colpi di stato di Maduro. Con grande lucidità argomenta i fatti di cronaca e di politica latinoamericana: le Farc, le Autodefensas, i paramilitari, i desplazados, il debole Stato colombiano, e tutti gli interessi politici ed economici che ruotano attorno al narcotraffico, alle multinazionali e agli uomini di partito.
Ascolto attentamente. Non mi pare vero. Un colombiano che parla di mafia ad un siciliano. Davanti ai miei occhi vedo realizzarsi un miracolo. Quello che gli insegnanti chiamano “apprendimento cooperativo” si palesa in tutta la sua meraviglia. Il cielo si squarcia, i marciapiedi s’ illuminano.
Incredibile! Bellissimo! Ma anche: che culo! Meno male che c’è Ramon! Puro Bogotà. Altro che Che Guevara.
Poi inizio a pensare. Penso a Salvo : i suoi idoli, le sue fascinazioni.
“A megghiu parola e chidda cu un si dice” “Di parrini si pigghianu li vini”. La parola migliore e quella che non si dice. Un espressione gergale che indica il valore sacrale del silenzio omertoso. Silenzio inteso come riservatezza e reticenza mafiosa. E ancora “Dai padrini si riceve il temperamento che scorre nelle vene”, cioè i valori fondanti l’identità dell’uomo di mafia. Proverbi vecchi, degradati e se volete retorici, ma che fanno riflettere, perché esprimono una psicologia unica e singolare. Insomma, il linguaggio di Cosa Nostra, fa ancora cultura!
Salvo mi da una risposta. Una risposta sincera, chiara, netta, irrefutabile. La stessa risposta che colgo quando parlo con alcuni ragazzi dei quartieri di Marsala e Mazara. I paesi da cui provengo.
Ricordo un giorno d’estate a Mazara. Ero seduto su una panchina in piazza Giudecca. Mi capitò di ascoltare una conversazione tra tre ragazzetti. I tre fanciulli armati di I-phone e youtube, guardavano alcune scene del film “Il Capo dei capi”. Memorizzavano le parti per poi simularle:
“Binnu “arricuotati chi cumannari è megghiu chi futtiri” – per intendere che chi ha potere gode più di chi fa l’amore.
“Ahahaha!”
“Miché “a cu apparteni?”. Miché si “nuddru mmiscatu cu nenti” – Michele a chi appartieni? A nessuno mischiato con niente, cioè non vali nulla.”
E ancora:
“Viscé: Vieni qua. Talia sta machina. Ti piace vero? Ma raccumannu Viscé: “a megghiu parola è chiddra c’un si dice!”
“Miché?”
“Oh!?”
“Chi mi minchi ci rridi!”
“Sta funci’a iminchia”
“Ahahaha!”
Incuriosito, mi avvicinai per capire:
“Picciò chi ffate?”
Risponde un ragazzino dagli occhi chiari:
“Teatro. Il Capo dei capi: u canusci? (Lo conosci?)”
“Certo! Ehm. E cu è Toto Riina?”
“Io sono Totò. E chissu e me frate Binnu” (si riferiva a Bernardo Porvenzano).
“Possu iucare cu vuàvutri?”(posso giocare/fare teatro con voi?)
“Seeeeh. Ma solo si ffai u sbirru!” (poliziotto)
Risposi d’impulso: “Minchia! Ma proprio lo sbirru?”
Ahahaha!
Risate collettive.
Ripensai a quel colloquio divertente. Lo raccontai a Salvo e Ramon. Era il discorso dei confini, del rispetto e dell’appartenenza di Salvatore. Venivo percepito dai tre ragazzi siciliani come un intruso e per di più adulto. L’associazione divenne simbolica e diretta: “non ti conosciamo, sei grande e quindi sei un poliziotto”.
I ragazzi mettevano in scena una simulazione della realtà mafiosa. Una realtà camuffata e illusoria certo, ma comunque reale. Per loro quella realtà – affascinante e seducente – era ancora più forte della realtà stessa. Ecco. Nell’ immaginario di Salvo, Viscé e Michele c’era questa realtà: la poetica del clan, una vera e propria estetica della mafia e della mafiosità. Una mafiosità che rende “sexy” il mafioso. Il mafioso visto come quinta essenza di un certo modo di intendere le relazioni umane e le relazioni di potere in particolare. Il mafioso del “che cazzo guardi”, del “che cazzo vuoi”, del “che cazzo ridi, tu di dove sei?”: uno che sa far succedere le cose che vuole. Che ci diventi amico perché grazie a lui scopri delle cose. Quello che ti dice : “Talia chi ce cà” (guarda cosa c’è qua) e ti sorprende. Che comanda perché è il più forte e fintanto che è il più forte. Uno che sa proteggere chi ubbidisce e liquidare l’infame che tradisce l’omertà del branco. La mafia spacca di bbrutto! direbbe Salvo. E al di là dello slang, non ha tutti i torti.
Mentre parlo con Salvo penso: ma se la mafia è così sexy, come faccio ad abbruttirla? Come posso smontare questa sua estetica? Come rendere la mafia meno arrapante? Provo a cercare qualche aforisma di Kant, Spinoza, Hegel, Freud o Bataille. Un pensiero puerile. Inutile. Stronzate da fighetta con la frangetta, direbbe Salvo.
La sigaretta è finita, rimane un mozzicone sbavato. Guardo il cartello stradale sul Corso Milano: via Negri, 2. La via della mia scuola. E passata un’ora e non ce ne siamo accorti. Mi rendo conto che la pausa è finita.
Ma certo! Ecco come: la pausa sigaretta! Ecco dove: la scuola!
Non ce ne siamo accorti, eppure in quella pausa sigaretta, abbiamo ragionato, riflettuto, discusso, approfondito, ascoltato. Abbiamo condiviso una visione del mondo. Ecco la scuola! La scuola è nella “pausa sigaretta”!
La pausa sigaretta è l’unico momento in cui il sexy mafioso può essere annientato. Ho capito che la pausa sigaretta è importante, perché di mafia in classe, non si parla spesso. La pausa sigaretta serve perché aiuta a vedere le cose in maniera diversa. Serve eccome la pausa sigaretta. Serve a smontare stereotipi: un immaginario grossolano e parziale, funzionale a non riconoscere i problemi. Serve a spiegare che cosa è il racket, come funziona il narcotraffico, come e perché le mafie si sono estese all’ Italia intera e poi al Mondo. Serve a formare anticorpi in grado di smontare la favola brutta ma rassicurante che vorrebbe i mafiosi una banda di gangster, terroni e tamarri folkloristici. Serve a me come professore. Serve a noi come adulti. Serve a coloro i quali è più comodo far finta di non sapere.
La scuola è così. Un insieme infinito di pause, sigarette, passioni e conoscenze. Ma la scuola è anche gran fortuna. Come è successo a me con Ramon. Ma questo si sa: la fortuna a scuola non è tutto. C’è’ anche il culo. E’ Il culo premia nelle pause.