L'ex governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro - che sta scontando la condanna a sette anni di reclusione per favoreggiamento personale e rivelazione di segreto d'ufficio aggravati dall'aver aiutato Cosa Nostra - non ha diritto di chiedere la «correzione» della pena inflittagli perché l'aumento di pena deciso in appello e confermato dalla Suprema Corte non ha ecceduto i limiti previsti dalle norme ed anzi è ben inferiore al massimo consentito. Lo sottolinea la Cassazione nella sentenza depositata ieri e relativa all'udienza svoltasi il primo aprile. Dopo la decisione con la quale il Tribunale di sorveglianza di Roma ha negato l'affidamento di Cuffaro ai servizi sociali, è questa la seconda volta che l'ex governatore vede deluse le sue speranze di uscire in anticipo dalla cella del carcere romano di Rebibbia. Con il ricorso alla Suprema Corte, Cuffaro ha sostenuto che era «eccedente» l'aumento di pena di due anni inflittogli in secondo grado, e confermato nel febbraio 2011 dalla stessa Cassazione, che aveva portato a 7 anni di reclusione la pena di primo grado pari a 5 anni e relativa alle due contestazioni di favoreggiamento e alle due accuse di rivelazione. Su ricorso della Procura, la condanna per l'ex governatore si era appesantita a seguito del riconoscimento dell'aggravante mafiosa per aver aiutato l'imprenditore della sanità Michele Aiello e il boss Guttadauro a sottrarsi alle indagini. «Esula dal caso in esame - scrive la Cassazione - la pur evocata illegalità della pena parziale e finale, dato che la sanzione di anni 5 di reclusione, determinata per il delitto più grave (favoreggiamento), è stata aumentata di un anno per il reato di rivelazione di segreti di ufficio e complessivamente, per i tre reati in continuazione, di anni due donde la pena definitiva di anni sette».