Con le bombe del ’93 ci fu un ricatto della mafia? Sì, dice Giorgio Napolitano. «Ricatto o addirittura pressione a scopo destabilizzante di tutto il sistema». Questo uno dei passaggi cruciali della trascrizione della testimonianza resa dal presidente della Repubblica nel processo per la trattativa Stato-mafia.
DOCUMENTO: ECCO IL TESTO INTEGRALE DELLA DEPOSIZIONE
LA TRASCRIZIONE SUL SITO DEL QUIRINALE
Il capo dello Stato aveva risposto per tre ore alle domande dei pubblici ministeri e degli avvocati, senza avvalersi delle sue prerogative di riservatezza. Appena terminata l’audizione, il Quirinale in una nota aveva auspicato una celere trascrizione integrale di quanto detto da Napolitano, perché l’opinione pubblica fosse tempestivamente e ampiamente informata. La trascrizione, in tutto 86 pagine, è stata depositata oggi nella cancelleria della Corte di Assise, a disposizione delle parti ed è stata pubblicata anche sul sito del Quirinale.
TRE FILONI
La deposizione ruota attorno a tre filoni. C’è la figura di Loris D’Ambrosio, che fu consigliere giuridico del Quirinale e che dopo una serie di telefonate di Nicola Mancino intercettate e pubblicate, diede le dimissioni con una lettera a Giorgio Napolitano in cui esprimeva il timore «di essere stato considerato un utile scriba per indicibili accordi». Poi le stragi del ’93 firmate dalla mafia e la percezione che le istituzione ebbero all’epoca di quanto stava accadendo in Italia. E infine gli allarmi di possibili attentati per colpire lo stesso Napolitano, allora presidente della Camera, e altre cariche pubbliche, allarmi oggi confermati anche da note del Sisde e del Sismi acquisite nel processo.
IL VERBALE
Il documento si compone di 86 pagine. Il primo a prendere la parole è stato il presidente della Corte, Alfredo Montalto. Poi, dopo che Napolitano ha dichiarato le proprie generalità, è intervenuto il procuratore di Palermo facente funzioni Leonardo Agueci. Quindi Napolitano ha risposto nell’ordine alle domande del procuratore aggiunto Vittorio Teresi e del sostituto Nino Di Matteo, e a quelle dei legali Giovanni Airò Farulla, avvocato del Comune di Palermo; di Massimo Krogh e Nicoletta Piergentili, legali di Nicola Mancino; di Luca Cianferoni, legale di Totò Riina. Basilio Milio, difensore del generale Mori, e Paolo Romito, legale dell’ex ufficiale del Ros Giuseppe De Donno non hanno rivolto domande. L’udienza si è chiusa con le domande poste dal presidente della Corte d’Assise, Alfredo Montalto.
LA FIGURA DI D’AMBROSIO
Il ritratto che ne esce è innanzitutto quello di un «servitore dello Stato» «animato da spirito di verità». Con lui «eravamo una squadra di lavoro», dice il Capo dello Stato. «Io non ho mai conosciuto il dottor D’Ambrosio fino al 1996», «lo conobbi dopo essere diventato Ministro degli Interni del primo Governo Prodi, nel maggio del 1996». Ministro della Giustizia Flick, «e fu sicuramente il Professor Flick che mi presentò il dottor D’Ambrosio, non saprei dire in quale mese del 96 o del 97», ricostruisce Napolitano. Il loro rapporto, spiega il Presidente, fu sempre «di stima e di affetto», ma sempre strettamente professionale, non «un rapporto di carattere personale in senso più ampio o più specifico». «Insomma - afferma il Capo dello Stato - non avevo né con il dottor D’Ambrosio, né con altri conversazioni a ruota libera o ricostruzioni delle nostre esperienze passate».
LA LETTERA DI D’AMBROSIO, «UTILE SCRIBA»
Un passaggio centrale della deposizione ruota attorno alla lettera di dimissione - poi respinte - che D’Ambrosio scrisse nel giugno 2012 dopo l’uscita delle telefonate, intercettate, di Nicola Mancino, preoccupato per i possibili sviluppi del procedimento Stato-mafia e per una, a suo dire, scarsa collaborazione tra le tre Procure che indagavano su vicende analoghe (Palermo, Caltanissetta e Firenze). In quella missiva D’Ambrosio manifesta tra l’altro il timore di poter essere stato «utile scriba per indicibili accordi». Cosa vuol dire quella frase? Napolitano riferisce che D’Ambrosio non gli spiegò le cause del suo timore. «Certamente, non ha con me mai aggiunto parola dopo, né aveva anticipato parola prima» e «se avesse avuto un sostegno oggettivo, il Magistrato, il Magistrato eccellente, Loris D’Ambrosio, avrebbe saputo benissimo quale era il suo dovere», afferma Napolitano. «Lei ha mai avuto sentore di queste inquietudini del consigliere D’Ambrosio per quelle attività del periodo 89-93?», viene chiesto al Capo dello Stato. «No io ho constatato de visu il suo profondissimo stato di ansietà e anche di indignazione perché era un uomo che aveva dedicato tutta la sua vita al servizio dello Stato», è la risposta di Napolitano, che descrive un uomo in uno stato di «esasperazione», «amareggiato perché vedeva mettere in dubbio la sua lealtà di servitore dello Stato». La sua era la lettera di un uomo «sconvolto». E l’annuncio di dimissioni contenuto all’interno fu per Napolitano un «fulmine ciel sereno». D’Ambrosio, rileva inoltre Napolitano, aveva in quella fase un timore, connesso anche al «rapporto di grande considerazione» che lo legava a Napolitano: quello che le intercettazioni delle sue telefonate con Mancino pubblicate dai giornali, potessero «tendere a coinvolgere anche il Capo dello Stato».
IL ’93 E I TIMORI DI CIAMPI DI UN COLPO DI STATO
Il 1993 è l’anno terribile delle auto bombe, in via Fauro a Roma, in Via dei Georgofili a Firenze e, nella notte tra il 27 e il 28 luglio del 1993, contestualmente in Via Palestro a Milano e a San Giovanni Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma. Segue a un altro anno di sangue, segnato tra l’altro dagli attentati a Giovanni Falcone e poi a Paolo Borsellino. Il clima di quegli anni viene più volte rievocato nel corso della deposizione. Nell’agosto del ’93 il presidente del Consiglio Ciampi temette un colpo di Stato ed è lo stesso Napolitano a ricordarlo: «Quando il presidente del Consiglio dice `abbiamo rischiato un colpo di Stato´ se non c’è allora fibrillazione vuol dire che il corpo non risponde a nessuno stimolo». E Napolitano ricorda anche l’episodio del blackout a Palazzo Chigi nella notte delle bombe a Roma e Milano, definendolo «un classico ingrediente di colpo di Stato». Ciampi definì «inquietante» quel black out. E «non ci fu assolutamente sottovalutazione» di quanto stava accadendo, «c’era molta vigilanza, molta sensibilità e molta consapevolezza della gravità di questi fatti».
IL DECRETO SUL CARCERE DURO
Nel giugno del ’92, dopo la strage di Capaci, viene varato dal governo un decreto che istituisce il carcere duro per i mafiosi, introducendo il 41 bis nell’ordinamento penitenziario. Il testo è convertito in legge ad agosto, poche settimane dopo la strage di via D’Amelio in cui viene ucciso Borsellino. Napolitano ripercorre anche alcune delle tappe che portarono alla stesura e all’approvazione della legge. E manifesta la convinzione che «la tragedia di via D’Amelio rappresentò un colpo di acceleratore decisivo per la conversione del decreto legge 8 giugno ’92 sul carcere duro». A Di Matteo che gli chiede se ci fosse stato un dibattito politico sulla conversione del decreto, il capo dello Stato risponde: «Non credo che nessuno, allora, pensò che in una situazione così drammatica si potesse lasciare decadere il decreto alla scadenza dei 60 giorni, per poi rinnovarlo». «Ci fu la convinzione che si dovesse assolutamente dare questo segno all’avversario, al nemico mafioso».
LE STRAGI COME AUT AUT DELLA MAFIA
Le stragi mafiose del ’93 «si susseguirono secondo una logica unica e incalzante per mettere i pubblici poteri di fronte a degli aut aut, perché potessero avere per sbocco una richiesta di alleggerimento delle misure di custodia in carcere dei mafiosi». Con queste parole Napolitano spiega, nella sua testimonianza, come le istituzioni e il governo percepirono l’escalation di violenza da parte di Cosa Nostra. L’impressione, rievoca Napolitano, era che «si trattava di nuovi sussulti di una strategia stragista dell’ala più aggressiva della mafia, si parlava allora in modo particolare dei Corleonesi». Ma in cosa consisteva quell’aut-aut, come fu interpretato? Oltre a volere ottenere un alleggerimento nelle misure carcerarie, le cosche puntavano ad una «destabilizzazione politico-istituzionale del Paese».
LE ISTITUZIONI E IL «RICATTO»
Il termine «ricatto» entra nella deposizione attraverso le domande del pm Nino Di Matteo. «Quindi, lei ha detto, - chiede il magistrato - si ipotizzò subito la matrice unitaria e la riconducibilità ad una sorta di aut-aut, di ricatto della mafia, ho capito bene?» «Ricatto o addirittura pressione a scopo destabilizzante di tutto il sistema», risponde Napolitano. E aggiunge: «Probabilmente presumendo che ci fossero reazioni di sbandamento delle Autorità dello Stato». Napolitano, come egli stesso premette, sta riportando anche in questo caso quale fosse «la valutazione comune alle autorità istituzionali in generale e di Governo in particolare» sulle stragi. Se nel verbale entra la parola «ricatto», non entra mai invece quello «trattativa».
LA SPACCATURA DI COSA NOSTRA
Che ci fossero due componenti all’interno di Cosa Nostra, una delle quali più aggressiva, la cosiddetta ala stragista, era cosa di cui si parlava nella pubblicistica dell’epoca. Napolitano, nella sua deposizione, da una parte non nega che possano esserci state queste componenti, dall’altra sottolinea però come questo fosse un dato piuttosto noto. E lo fa in riferimento a una domanda su una audizione dell’allora ministro della Giustizia Conso che di fronte alla commissione Antimafia parlò delle due fazioni. «L’analisi secondo la quale c’erano tendenze contrapposte in seno alla mafia - afferma Napolitano - ha formato oggetto della pubblicistica italiana in quegli anni. C’era molto probabilmente una spaccatura, ma questo lo si capiva senza bisogno di essere politologi, scienziati della politica o sapienti giuristi come Conso».
VITO CIANCIMINO E L’ANTIMAFIA
Un altro aspetto approfondito in sede di udienza riguarda la richiesta che l’ex sindaco di Palermo, colluso con la mafia, fa di essere sentito dalla commissione bicamerale Antimafia presieduta da Luciano Violante. Fu lo stesso Violante a informare Napolitano, della richiesta di Ciancimino. La commissione decise poi di non ascoltarlo. Ma sulle ragioni, il Capo dello Stato, non entra. Dell’intenzione di Ciancimino di essere sentito, Violante «può anche avermene parlato - riporta infatti Napolitano - ma non perché io mi pronunciassi».
IL RISCHIO ATTENTATI PER NAPOLITANO E SPADOLINI
Nel ’93 un rischio attentato si profilò anche per lo stesso Napolitano e per il presidente del Senato Giovanni Spadolini. Note del Sisde e del Sismi redatte all’epoca e ora acquisite agli atti del processo sulla presunta trattativa, lo rivelano. Allora, Napolitano non seppe di queste informative, ma seppe dei possibili rischi. Ad informarlo fu il capo della polizia, Parisi. «Non avevo dubbi che la facesse sì personalmente lui, ma che la facesse a nome del Ministero dell’Interno», che era Nicola Mancino, ha spiegato Napolitano. «Non ricordo che mi sia stata comunicata alcuna ulteriore precisazione da parte del Ministro dell’Interno che in quel momento era esattamente il Ministro Mancino, ma certamente sapeva benissimo che... O aveva addirittura autorizzato lui, il Prefetto Parisi, a venire da me per parlarmene», afferma Napolitano. L’allora presidente della Camera accolse queste notizie «con assoluta imperturbabilità». E questo «credo che valga anche per il compianto Spadolini». «Non mi scomposi minimamente - afferma Napolitano - perché avevo già vissuto tutti gli anni della stagione del terrorismo in cui di minacce ne fioccavano da tutte le parti e purtroppo non fioccavano solo minacce, ma anche pallottole anche ad esponenti politici e ad esponenti sindacali, eccetera». Inoltre, «ho sempre considerato che servire il Paese significa anche mettere a rischio ipotesi di sacrificio della propria vita e guai a farsi condizionare da reazioni di timore o di allarme personali».