Oggi nuova udienza del processo "Eden" al Tribunale di Marsala. Sarà chiamato a testimoniare il maresciallo dei carabinieri Michele Granato, che ha svolto indagini sui tre imputati accusati di associazione mafiosa: Messina Denaro, Guttadauro e Lo Sciuto. Si prevede ‘’un’udienza fiume’’. Nell'ultima udienza, invece, ha parlato il maggiore Andrea Manti, dal 2010 al 2013 al Ros di Roma, ma distaccato a Palermo per seguire le indagini sulla famiglia mafiosa capeggiata da Matteo Messina Denaro. ‘’La fittizia intestazione della società olivicola Fontane d’oro di Campobello di Mazara, formalmente dei fratelli Indelicato – ha detto l’ufficiale, adesso a capo del Ros di Napoli - era riconducibile a Francesco Luppino, poi condannato per omicidio. Furono poi sequestrati i beni della società e il frantoio. I fratelli Indelicato furono condannati’’. Coinvolta nelle indagini anche la moglie di Luppino, Lea Cataldo, già condannata (3 anni e mezzo) con rito abbreviato, come il marito, in un altro ‘’troncone’’ del procedimento Eden. ‘’Le indagini – ha continuato Manti - furono avviate quando Luppino era detenuto. All’indomani dal sequestro di Fontante d’oro, percepimmo che una serie di soggetti intendevano reimpossessarsi dell’azienda per suddividere i guadagni ai proprietari reali Luppino e moglie. Formalmente la ditta lavorava in amministrazione giudiziaria (Fresina). Con accertamenti alla Camera di commercio scoprimmo che l’amministrazione giudiziaria cedeva in affitto parte della ditta a un’azienda il cui rappresentante era Peruzza Vincenzo, poi un altro ramo fu ceduto in affitto a Torino Ciro, ma lo gestiva il padre Vincenzo, che risultava già condannato per furto ed estorsione avvenuti in Campania. Vincenzo tecnicamente era pregiudicato. Ciro era incensurato all’epoca. Poi fu arrestato per droga a Salerno. Ciro si occupava di coltivazione di ortaggi, mentre Vincenzo commerciava in prodotti alimentari. Tentarono di adottare misure volte a evitare che Fontane d’oro chiudesse e mantenere alti i guadagni per ricavare redditi per la famiglia mafiosa di Campobello di Mazara. Da alcune conversazioni si capiva che le preoccupazioni per capire come andava la trattativa erano legate alla scarcerazione di Aldo Luppino, fratello di Francesco, arrestato nella stessa operazione del sequestro di Fontane d’oro’’. In un’intercettazione, si sente Vincenzo Torino che dice: ‘’Quello che dicono loro (i coniugi Luppino) per noi va bene’’.
PROCESSO BORSELLINO QUATER. Un un’udienza che non t’aspetti, non pubblicizzata né sbandierata, lontana da riflettori e grandi firme, si corregge la storia dell’arresto di Totò Riina. E un ex funzionario dello Stato ripete più volte in tre ore di deposizione e per la prima volta in modo così netto in un pubblico processo: “Nel giugno 1992, dopo Capaci ma prima di via D’Amelio, ci fu un cedimento dello Stato davanti alle richieste della criminalità perchè il regime carcerario divenne meno duro”. Aula bunker del carcere di Rebibbia. Il processo è il Borsellino quater, quello che la procura di Caltanissetta, il procuratore Lari, i pm Gozzo e Luciani, sta celebrando con nuovi imputati perché a suo tempo è stata ingannata da un falso pentito che si chiamava Scarantino (su questo c’è un procedimento a parte per depistaggio).
Indagando sulla mattanza di via d’Amelio (19 luglio 1992), la procura oltre a chi materialmente eseguì l’attentato (i nomi sono già noti) vuole anche capire se qualcun altro - “le menti raffinatissime” evocate da Falcone dopo l’Addaura - ha dato il via libera a quell’attentato. Per essere ancora più chiari, se ci fu tra Capaci (23 maggio) e via d’Amelio (19 luglio) qualcosa o qualcuno che decise di forzare la mano per costringere lo Stato a trattare con Cosa Nostra. Un patto di scambio a cui Borsellino era decisamente contrario. Il presidente della Corte d’Assise di Caltanissetta Antonio Balsamo ha portato per due giorni la corte in trasferta a Roma. Per sentire alcuni testi particolari: lunedì il presidente Ciampi e l’ex ministro Conso (assenti per malattia, sono stati assunti i verbali resi in fase istruttoria); oggi Luciano Violante, presidente dell’Antimafia dal 28 giugno 1992 al 10 maggio 1994, e Niccolò Amato, il direttore del Dap, la direzione penitenziaria, improvvisamente sollevato dall’incarico il 4 giugno 1993.
L’ARRESTO DI RIINA, UN’ALTRA STORIA - Violante ha affrontato con lucidità e numerose cartelline tre ore di interrogatori e controinterrogatori. Alcuni passaggi della sua deposizione aprono squarci nuovi. Diversi. Sull’arresto di Totò Riina, ad esempio. La versione ufficiale, quella delle sentenze, ci dice che Balduccio Di maggio, ex boss di S. Giuseppe Jato, “fu arrestato dai carabinieri l’8 gennaio 1993 a Borgomanero, in provincia di Novara”. L’ufficiale dei carabinieri che lo prese in consegna, il generale Delfino, lo convinse subito a parlare e il 15 gennaio, appena otto giorni dopo, “i carabinieri arrestarono a Palermo Totò Riina”. Fu una grande e inaspettata vittoria dello Stato. Il quale però si dimenticò di perquisire il covo del boss a Palermo (questo è stato oggetto di un altro processo, celebrato a Palermo, contro Mori e De Donno finito però nel nulla).
Il pm fiorentino Gabriele Chelazzi, poco prima di morire (2004), si era già interrogato su come fossero andate veramente le cose circa l’arresto di Di Maggio. Arrivò già a definirlo “presunto”. Non gli tornava la tempistica. A distanza di tempo oggi Violante sembra confermare i sospetti di Chelazzi. I pm Stefano Luciani e Gabriele Paci chiedono cosa sapeva l’allora presidente dell’Antimafia circa l’arresto di Riina. Violante: “Ricordo che prima di Natale, al massimo tra Natale e Capodanno 1992, il generale Delfino mi invitò da lui in caserma. Io ero a casa, a Torino e ricordo che lo raggiunsi in bicicletta. Fui accolto con le fanfare e la cosa mi imbarazzò un po’ visto che pensavo fosse una visita informale. In ogni caso Delfino mi disse che nel corso di alcuni controlli in provincia, avevano trovato un’officina dove lavorava un tizio che aveva un’arma non denunciata. E che questo tizio ci avrebbe potuto aiutare ad arrestare Riina. Io – ha concluso Violante – gli dissi che la cosa non mi poteva e non mi doveva interessare e che doveva rivolgersi al procuratore Caselli”.
Dunque, dal nuovo racconto dei fatti, risulta che Di Maggio non viene arrestato l’8 gennaio 1993 ma almeno un paio di settimane prima. E con modalità a questo punto assai confuse. Quasi che l’arresto sia stato costruito in maniera artificiosa. A questo punto è legittimo chiedersi cosa è successo in quelle due, ma forse più, settimane di buco. E’ un fatto che Riina fu arrestato poco dopo, il 15 gennaio. E che il covo non è stato subito perquisito. Ed è legittimo pensare che tutto questo – arresto e mancata perquisizione – siano già state un pezzo della trattativa.
Violante ha anche toccato molti punti emersi in un’altra audizione, quello del Capo dello Stato il 28 ottobre davanti alla Corte d’Assise di Palermo. Ha precisato i suoi rapporti con l’allora capitano Mori (“era uno stretto collaboratore del generale Dalla Chiesa che conoscevo dai tempi delle indagini sul terrorismo”), l’ha incontrato “tre volte prima di diventare presidente dell’Antimafia” e in quell’occasione gli aveva riferito della richiesta di Vito Ciancimino (l’ex sindaco di Palermo colluso con la mafia) di essere sentito “su quello che stava accadendo in Sicilia”. Ciancimino, “una sorte di confidente dei carabinieri”, fu poi arrestato e non fu mai sentito in Antimafia perché nel ’94 terminò la legislatura. Detto questo, Violante ha voluto precisare che quando era giudice istruttore, “ho sempre lavorato con la polizia perché preferivo dirigere le indagini mentre era tipico del nucleo di Dalla Chiesa informare il magistrato a cosa fatte”.
Violante incontrò Borsellino poco prima di morire. “Era quasi certo – ha detto – che dopo la strage di Capaci sarebbe toccato a lui morire. Ne era così sicuro che cominciò a lavorare moltissimo sfruttando il tempo che gli rimaneva per procedere nello smantellamento dell'organizzazione mafiosa anche con indagini in Germania”. Ha anche ricordato che durante quell’incontro “gli passai al telefono il procuratore Vigna che lo informò del fatto che Mutolo voleva collaborare. La procura di Palermo era stata avvisata. Ma Borsellino non ne sapeva nulla”. Sulla trattativa l’ex presidente della Camera è stato chiaro: “Che la mafia cercasse di trattare è assodato, le bombe senza morti erano chiaramente bombe di dialogo. Il problema è se lo Stato ha risposto a quella richiesta”.
“IL CEDIMENTO DELLO STATO NEI CONFRONTI DELLA MAFIA” – E’ stato quasi perentorio il secondo teste della giornata, quel Niccolò Amato dal 1983 al 1993 direttore dell’Amministrazione penitenziaria, e dunque delle carceri, proprio nel biennio delle stragi di mafia. Sul 41 bis, ha detto, ci sono state “interferenze improprie e anomale da parte del ministero dell'Interno e di uffici del ministero della Giustizia non competenti”. Interferenze che lo hanno allontanato all’improvviso dalla guida del Dap il 4 giugno 1993. La sua era una linea molto dura. Dopo di lui ci fu invece “un cedimento”.
Amato è già stato preso a verbale nel 2011 e nel 2012. Ma in questo frattempo ha recuperato memoria. In ogni caso ha messo in fila i fatti. Aveva anche chiesto di essere sentito dalla Commissione antimafia presieduta da Pisanu ma senza ottenere risposta. Aiutato da appunti e documenti, davanti alla corte d’Assise di Caltanissetta Amato ha ricostruito come dopo Capaci non ci furono dubbi né da parte sua né da parte del ministro della Giustizia Claudio Martelli su cosa fare: riaprire i penitenziari (Pianosa e Asinara) ed estendere il 41 bis alle intere strutture carcerarie. Da giugno 1992 a marzo ‘93 Amato, che aveva ricevuto la delega dal ministro per operare direttamente, aveva applicato il carcere duro a 1029 detenuti. Tra marzo e maggio ’93, però, ci fu la revoca per 127 detenuti. “C’era stato un eccesso di zelo, un’ipertrofia” ha ammesso. Avevano esagerato.
Il piano di Amato prevedeva di estendere il 41 bis a “circa cinque mila detenuti perché la risposta dello Stato alle bombe doveva essere durissima”. Peccato che nel frattempo, tra la fine del ’92 e i primi mesi del ’93, la Consulta con ben due sentenze, aveva chiesto di rivedere i criteri.
Infatti, già a partire dall’agosto 1992, Amato trova molti ostacoli alla sua linea dura. Anche l’ufficio legislativo e gli Affari penali della Giustizia si oppongono. “Ho trovato gli appunti – ha detto Amato – questi due uffici, che non avevano competenza sul carcere, formulavano critiche alla mia proposta, dicendo che doveva essere approfondita e discussa”. Un nuovo nemico Amato lo trova al ministero dell’Interno dove ministro era Mancino (imputato per falsa testimonianza nel processo trattativa): “In una riunione il capo della polizia Parisi espresse riserve sul 41 bis perché creava tensioni dentro e fuori le carceri”. A Napoli, ad esempio, erano in corso le rivolte. I famigliari protestavano. I cappellani si facevano portavoce.
A marzo cambia il vertice politico in via Arenula. Giovanni Conso prende il posto di Martelli e , “nonostante le mie rimostranze perché l’intervento di Parisi era inaccettabile”, il nuovo ministro “revocò l'80% dei 41 bis nelle due carceri campane”. Il 4 giugno Amato viene rimosso dall’incarico. I cappellani, tramite monsignor Cesare Curione, grande amico di Scalfaro, indicano un sostituto più malleabile (Adalberto Capriotti, sentito ieri). Il vice è il giudice Di Maggio. E al Dap cambia tutto. Fino a novembre 1993 quando Conso revoca 340 provveddimenti di 41 bis. “Oggettivamente – ha concluso Amato – c’ è stato un cedimento dello Stato alla mafia nel momento in cui a partire da giungo 1993 vengono presi provvedimenti che io non avrei mai preso e che hanno ammorbidito la linea nel penitenziario”. Sembra il processo sulla trattativa. Ma non lo è. E’ il processo Borsellino. L’udienza è tolta.