Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.
Se vuoi saperne di più negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi.
Utilizzando tali servizi, accetti l'utilizzo dei cookie. Cookie Policy   -   Chiudi
19/01/2015 06:10:00

"Je suis Charlie" e la libertà di espressione. Finito il clamore,rimane l'ipocrisia

 Molti lo hanno detto per comunicare il proprio sostegno morale, altri lo hanno pubblicato sui social network per condividerlo con i propri amici ma pochi hanno riflettuto sul suo reale significato. “Je suis Charlie” è risuonato e continua a risuonare come un mantra. Ripeterlo è sembrato un atto dovuto, una dimostrazione di partecipazione e di impegno civico che supera i confini territoriali nazionali e si unisce alla sofferenza delle famiglie, degli amici, dei colleghi e di una nazione intera quale la Francia.
Ma, a circa dieci giorni dai tragici eventi di Parigi e ad una settimana da una manifestazione che ha visto la partecipazione di milioni di persone, comincia a palesarsi la nostra ipocrisia.
Adesso che l’ondata di empatia collettiva che ha travolto ognuno di noi sta per perdere il proprio effetto, ora che il clamore dei primi giorni è svanito ed il dolore ritorna ad essere privato, la compassione lascia spazio alla riflessione. E’ un discorso che va oltre il fatto di cronaca stesso, le colpe dello Stato e l’attenzione che viene dedicata a certi argomenti piuttosto che ad altri. E’ una questione che riguarda noi stessi.
Quanti di quelli che lo hanno detto sono veramente Charlie?
Una domanda un po’ bizzarra, forse polemica. Ma una domanda che ci tocca direttamente perché, al di là delle semplici esternazioni di sostegno, serpeggia un latente, ma poi non tanto, sentimento di diffidenza e addirittura di vera repulsione nei confronti di Charlie Hebdo.
Per molti di noi, è bastato guardare con attenzione alcune delle loro vignette, leggere le traduzioni di alcuni dei loro dialoghi per ritrattare quanto detto e pentirsi di essere Charlie. Siamo stati bravissimi a mostrare il nostro supporto in occasione dei fatti, un po’ meno a pensare in maniera coerente.
Essere Charlie non vuol dire necessariamente condividere la loro opinione sugli argomenti trattati, sposare la loro linea di pensiero o comprare il loro giornale. Significa essere pronti a metterci la faccia quando il diritto alla libertà d’espressione viene leso. Difendere il diritto altrui di essere in disaccordo con noi perché è su questo che la pacifica convivenza si basa. E allora, noi siamo Charlie? Magari.
Charlie non aveva e continua a non avere padroni, non guardava in faccia nessuno e non si faceva scrupoli di fronte a questioni religiose, politiche o morali. A molti non piaceva e per questo molte questioni sono finite in un’aula di tribunale. Ma era la prassi. Loro pubblicavano, chi si sentiva offeso aveva tutto il diritto di procedere per via legale. La differenza tra noi ed i francesi risiede nel fatto che la Francia si è realmente identificata con Charb, Tignous e tutti gli altri vignettisti, sebbene molti dei cittadini francesi non condividessero le loro idee e non comprassero il loro settimanale. Si sono sentiti toccati personalmente dalla barbara uccisione di chi faceva soltanto il proprio lavoro e per questo hanno manifestato.
Ma noi italiani non siamo Charlie. Siamo incapaci di reggere il confronto con una nazione che, oltre le divergenze, si unisce laicamente nel dolore. Forse potremmo esserlo se fossimo in grado di superare le barriere che ci vengono imposte dal nostro modo di vedere le cose, dalle nostre consuetudini, dalle nostre abitudini. Però non succede.
A differenza di Charb o Tignous, noi non siamo liberi di pensare senza la costante paura di essere giudicati dalla facile morale di chi guarda il mondo dall’alto delle sue certezze. Forse perché viviamo in una paese lungi dall’essere laico, forse perché la religione ci ha influenzati troppo , forse perché abbiamo perso l’abitudine a farlo per vari motivi.
Ma non possiamo dire di essere Charlie. Non quando, alla vista di una vignetta che prende in giro la nostra religione, ci indigniamo profondamente e magari pensiamo: “forse se la sono cercata”. Per chi di noi lo ha fatto, dire “Je suis Charlie” rappresenta un’offesa nei confronti del giornale stesso. La reale e profonda empatia che si contrappone alla più ingenua delle ipocrisie: affermare di essere quello che non si è realmente. Siamo tolleranti quanto basta, ma certe cose non possiamo sopportarle. E finché non saremo in grado di accettare il fatto che qualcuno possa pensarla in maniera totalmente diversa dalla nostra, anche di argomenti ai quali siamo particolarmente attaccati come la religione, non potremmo dire di esserlo. Non siamo Charlie, ma dovremmo imparare ad esserlo.

Gian Marco Maggio