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03/04/2015 17:05:00

La passione della-per la "parole" di Stefano Lanuzza

 di Antonino Contiliano

Due particolari e recenti eventi editoriali richiamano il nome dello scrittore e critico Stefano Lanuzza. Sono l’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, tradotto in lingua tedesca da Moshe Kahn (S. Fischer Verlag, Frankfurt, 2015), e ora, dello stesso Lanuzza, Céline della libertà. Vita, lingua e stile di un “maledetto” (Stampa Alternativa, Roma-Viterbo, 2015). Si tratta di due pubblicazioni che hanno al centro, pur diversamente connotato, un linguaggio letterario ‘eretico’ (per una letteratura non d’‘accatto’, ossia consumistica o di mercato): un linguaggio come passione della parole, come scelta fortemente trasgressiva. Una parole con cui si identifica uno stile o un’insolita stilistica, innovativa e abnorme, che rivoluziona la prassi della scrittura artistica sia sul piano lessicale, sia su quello ritmico-sintattico ed espansivo. È, insomma, la parola della vita con il suo carico di ‘percetti’ e ‘affetti’ che attraversa il linguaggio – direbbe G. Deleuze – stagliandosi nell’opera e fondando uno stile assolutamente originale, imparagonabile e memorabile. La scrittura artistico-letteraria che ne consegue segna una svolta e insieme, diversamente dalle correnti produzioni di consumo, uno sconvolgimento che assale, devastandole, le abitudini di un pubblico fin troppo assuefatto alla tradizione normativa.

Assumono allora rilievo, in D’Arrigo, i sostrati dialettali e l’etimologia rizomatica “dei gerghi della Sicilia nord-orientale costiera”. Per raccontare la storia di ‘Ndrja Cambria (il protagonista di Horcynus Orca), D’Arrigo si è creato un personale linguaggio attivando una catena lessicale risalente fino alla corte di Federico II. Le maglie, se si segue il cammino a ritroso, «sono il francese e il normanno, l’arabo, il greco bizantino, il latino, il greco antico, il siculo. Questo materiale linguistico si trasformò per quasi duemila anni, giungendo finalmente ai lessici del mezzogiorno italiano che conosciamo. […] molte parole sono uguali o simili e hanno un significato uguale o simile; altre invece suonano uguali o simili, ma hanno un significato completamente diverso dall’italiano. Per chiarire quest’ultimo gruppo, ecco qualche esempio: stilare significa in italiano “stendere, scrivere un documento” e deriva da stilo, un oggetto per scrivere; mentre, in siciliano, stilare ha invece una coloratura greca, deriva da stylos e assume il significato di “avere l’abitudine”, come nell’espressione “stilava alzarsi presto”. Spiare significa in italiano “guardare, osservare attentamente e di nascosto” e deriva da una radice gotica e latina; in siciliano spiare assume invece il significato di “domandare, chiedere” […]» (cfr. Moshe Kahn, in www.retididedalus.it, 2015 gennaio).

Nell’altro caso, il codice letterario usato da Céline è l’argot1 delle banlieues francesi. Con Viaggio in fondo alla notte, Louis-Ferdinand Céline inaugura infatti – scrive Lanuzza – una narrativa tutta particolare: registro gergale più soggettivo e protagonista; sintassi frammentata e spezzettamento della trama narrativa; varietà linguistiche; espressioni popolari o figure argotiche della banlieue parigina; mots grossiers e defor­mazioni lessicali; metamorfismi espressionistici e verbi sostantiva­ti; pleonasmi o ridondanze grammaticali con aspre sonorità. Un linguaggio insomma che allontana i lettori dalle attitudini puriste del romanzo ufficiale. «Con il secondo romanzo [Morte a credito], il parlato argotico assume il definitivo do­minio del discorso céliniano. Più che mai lo scrittore avverte il biso­gno di una forma nuova e individuale per la sua narrativa: di un’a­zione di rottura linguistico-stilistica, ancora più decisa e radicale che nel Voyage, contro l’imbalsamato monolinguismo della tradizione li­ceale ordinaria» (S. Lanuzza, Céline della libertà…, cit., p. 37). Il suo linguaggio non trascura niente della lingua, specie d’uso: privilegiando «la lingua d’uso dei ragazzi di stra­da, dei maliziosi alunni della scuola comunale da lui frequentata o dell’ingegnoso commesso di bottega; e non rinuncia ad avvalersi del gergo di caserma, dei pesanti motti dei bassifondi o della ‘mala’, nonché delle chiacchierate con l’amico pittore Gen Paul che abitualmente s’esprime in un compiaciuto argot coprolalico» (Ivi).
Queste due opere, sebbene diversamente collocate, vedono egualmente coinvolto Stefano Lanuzza (anche storico della letteratura), perché di Céline della Libertà è l’autore diretto e unico (al “maledetto” Céline, Lanuzza ha già dedicato altri due studi, sempre pubblicati con Stampa Alternativa: Maledetto Céline. Un manuale del caos e la traduzione del libello di H.-E. Kaminski Céline in camicia bruna. Un voyage immaginario). Mentre della traduzione tedesca di Horcynus Orca è stato consulente linguistico. Conoscitore e specialista della lingua di D’Arrigo, ha affiancato l’opera di traduzione di Moshe Kahn per salvaguardare al meglio il pensiero e la lingua darrighiana. È, poi, appena il caso di ricordare che il Lanuzza, oltre a frequentarne la scrittura letteraria, ha conosciuto personalmente Stefano D’Arrigo che gli ha rilasciato una rara intervista, inserita poi nel volume Scill’e Cariddi. Luoghi di Horcynus Orca (Catania-Acireale, Lunarionuovo, 1985).
L’importanza dell’intervista, di cui si riporta qualche frammento, è data anche dal fatto che D’Arrigo vi rilascia una precisa dichiarazione di poetica: «Ho costantemente cercato di fare coincidere i fatti narrati con l’espressione, la scrittura con l’occhio e con l’orecchio, rifiutando qualunque modulo che mi apparisse parziale, astratto o intuitivo, cioè non completo e assoluto. Non ho rinunciato a nessun materiale linguistico disponibile perché sono partito dall’obiettiva sicurezza che i luoghi della mia narrazione – luoghi topografici ma soprattutto luoghi del testo – restino un fondamentale punto d’incontro e filtraggio delle lingue del mondo. Naturalmente, ogni volta che ho adoperato neologismi o semantiche inedite mi sono preoccupato di fornire immediatamente il corrispettivo metaforico, di scrivere, riscrivere, rifondare il periodo e ‘mirare’ il vocabolo finché non giudicavo d’avere raggiunto l’espressione completa: fino al momento in cui guadagnavo la certezza che il risultato ottenuto fosse quello giusto e definitivo, che la totalità lessicale, sintattica e semantica fosse realizzata, che, sulla pagina finita, la scrittura ‘parlasse’».
Se Stefano Lanuzza scandaglia particolarmente autori come D’Arrigo e Céline, che si richiamano – si può dire con una formula di Wittgenstein – per “somiglianze di famiglia” e in quanto presi da ‘passione della parole’, ciò è anche dovuto al fatto che i due autori in questione, per il nostro critico come per Gianfranco Contini, hanno una consonanza tematica e gergodialettale che li accomuna come produttori di lingua letteraria di rottura e innovativa. In tale contesto – scrive Lanuzza – pertinente è «il rapporto stabilito da Contini fra un Céline che si ritiene soprattutto poeta e le stilizzazioni gergodialettali dell’Horcynus Orca, poematico romanzo di D’Arrigo […]. Romanzo dell’umano fato è, altresì, Morte a credito: che si intona con lo stesso tema sviluppato grandiosamente nel citato Horcynus Orca (Céline e D’Arrigo sono soldati combattenti in due guerre mondiali: nella prima Céline, nella seconda D’Arrigo) e inizia con la scena della misera fine della vecchia Bérenge, portinaia […]» (S. Lanuzza, Céline della libertà…, cit., p. 44).
Quanto al richiamo su Céline e D’Arrigo «soldati combattenti in due guerre mondiali», in tale contesto, Lanuzza ritiene pertinente e anche necessario individuare ancora la componente storico-temporale che muove la narrativa dei due scrittori. E con ciò, specie nel caso di Cèline, Lanuzza tocca gli aspetti problematici e controversi del deplorato antisemitismo céliniano fermando l’attenzione sulla temperie culturale, linguistica e ideologica dell’epoca. Tutto questo è in Céline della libertà evidente e sottolineato, soprattutto nel capitolo dei “‘Balletti’ antisemiti’ riguardante Bagatelle per un massacro, La scuola dei cadaveri, I bei pasticci.