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16/04/2015 11:00:00

L’errante poeta Gianmario Lucini

Lascio […] che ognuno viva a suo talento e che
chi vuol morire muoia a proprio piacimento,
purché a me sia dato di vivere per la verità.

B. Spinoza (al sigr. E. Oldenburg, Epistolario, XXX).

 

 

L’editore e poeta Gianmario Lucini è morto nell’ottobre del 2014. Non ha potuto vedere nulla del destino di quest’ultima sua fatica poetica, Istruzioni. Per le quattro sezioni che compongono il libro – Istruzioni per la notte, Istruzioni per l’ascesa, Istruzioni per l’ira, Istruzioni per la città –, le poesie di questa raccolta, a parere di chi scrive, non sono molto lontane da veri e propri esercizi spirituali, e numerati. Una scansione, poeticamente dinamicizzata nella topologia dei luoghi della notte, della vetta, dell’ira e della città in vista di una condotta est-etico politica tutt’altro che fuori uso e tempo. Anzi è storicamente temporalizzata, e inchioda nel dove e nel come si vive, o dispersi tra i simboli della luce del giorno “e la vanità che si sbriciola” (Istruzioni per la notte, I). Quattordici esercizi di poesia meditativa nel raccoglimento per la notte, dieci per l’ascesa-ascesi nella spazialità alta della montagna, quattro per l’“ira infiammata”, dieci per la città, colta nella cura del disamore e dell’indifferenza, e gli altri testi dedicati al “viaggio”. Un corpo a corpo dia-logico con se stessi, il tu e l’autrui (l’altro) come un ego alter (individuale e sociale) piuttosto che con l’“alter ego”; questi infatti mima l’identità del medesimo dell’occidentale omologazione, anziché relazionarsi con la differenza dell’eteros.
Questo taglio dei testi poetici di “Istruzioni” (di G.Lucini) fa sì allora che il loro aspetto estetico non debba essere disgiunto da quello etico-politico della scrittura.Vero è infatti che in certi momenti storici, come quello in cui siamo, la bellezza dell’aisthesis di un testo poetico – la sua “eccedenza” d’essere di significante non separato dalla significanza – si può vedere solo attraverso i temi che realizzano l’idea portante del poeta stesso. Il poeta che, nelle singole poesie, come nel caso di questa raccolta – Istruzioni – di Lucini, processualizza il pensiero come pratica di contro-condotta. Il testo «per essere fruito esteticamente, deve avere obbligatoriamente una funzione non solo estetica» (J.M.Lotman, La sttuttura del testo poetico). Pur rimanendo, dovendo rimanere, nella sua astrazione di mondo poetico alternativo/altro e di un a venire fittizio, il fare di questo mondo possibile di Istruzioni non ama essere rinchiuso nella pura dimensione dell’estetico-contemplativa privata, o espressione della soggettività lirico-intimista del poeta in clausura misterica.
Questi esercizi pratico-meditativi possono essere del “chiunque”, e consigliati a chi – colto dalla “verità” riflettente-pratica nel proprio viaggio esistenziale e politico – ha deciso di mettere in moto la propria capacità di pensiero critico giudicante e conflittuale. Queste poesie di Istruzioni sono un vero vadecum spinoso. Un pungolo nella carne per ogni cittadino e potere che abbia dimenticato il progetto del divenire-umanità concreta e de-animalizzata. Sono delle stazioni di sosta e confronto per chi, in cammino verso la pace con se stessi e gli altri/eteros, ripudia la violenza gratuita e la cinica indifferenza come condotta di vita; sia, questa condotta, quella individuale che sociale, o planetaria. Poco importa. Per gli altri un invito a una metamorfosi vertiginosa e totale.
Il poeta, infatti, riflette e giudica scelte e condotte proprie, dell’altro e del modello di vita che ci svuota, svuota e desertifica. Così, per esempio, la polis della città contemporanea, del contado, della metropoli o della cosmopolis: quella dell’indifferenza micidiale e delle fredde statistiche di morte e delle sopraffazioni che reificando disumanizzano. La città diventa un “atomo opaco del male”; quel male fatto direttamente o indirettamente e nelle forme cui il mercato odierno ci ha educati, ma di cui ciascuno non si sente responsabile. Paradossalmente, però, non è neanche innocente. Ma i modelli non sono eterni. Una frattura paradigmatica è possibile! Un’immaginazione come una ragione pratica e significante può rilanciare, come ha cercato di fare il nostro Lucini (poeta ed editore errante), non l’indifferenza, la guerra e la morte dell’altro, ma l’“innocenza al potere” e l’amore come atto politico comunista. Una scelta e una decisione per ognuno, e specie per il poeta. “ […] / Insegnami, – dice il poeta –, settembre, l’arte di obbedire / alla benedetta collera del cuore // a tenerla sospesa in un angolo pronta a scattare / non appena l’uomo dimentico della morte / la vada a cercare. Questo è il dovere / del poeta capace di amare” (G. Lucini, Congedo, in Vilipendio/2014). Nessuno si senta assolto dal “peccato”, di cui è portatore e attivo praticante distratto ma coinvolto. Nessuno s’acqueti nelle “fesserie”, nelle romanticherie o nell’assentarsi del pensiero-azione.


Sul marciapiede siamo tutti spenti / esseri e folla in allerta che si scruta / di sguincio e nemmeno il richiamo /d'una musica ci fa volgere il capo / nemmeno il sorriso d’un bambino. (Istruzioni per la città, IV); “Tu ne conosci la ragione ma ti piace / parlare di spleen o di altre fesserie / vetero romantiche e ti rilasci / a quel deliquio che assolve ogni peccato / nella sera d’una città qualunque / di questo opaco atomo del male. (Istruzioni per la città, V).

Certo l’innocenza non è al riparo da dolore, né tanto meno completamente portatrice immune. Tuttavia il nostro tempo, declinato dagli automatismi de-responsabilizzanti, sembra averne domenticato, rimosso, il pungolo e l’urgenza. Quell’urgenza che pensa e vuole una azione giudicante e una pratica-di-verità storico-responsabile (quanto contingente) da recuperare come rottura col presente e un avvio di costruzione di ponti e di pace dentro le personali metamorfosi e con i “terzi”, o l’altro. Il non riconosciuto dall’identià occidentale, lo straniero.
Le poesie di Istruzioni, a questo punto – e non sembra non essere nel vero – possono essere lette e proposte al lettore, o alla memoria di tutti, come il pungolo lasciatoci da un soggetto della parrhesia – “dire-il-vero”, “l’essere franco” –. Un soggetto che, al tempo stesso, insieme a dire-il-vero si fa istruttore (ci lascia le istruzioni) di condotte come un breviario-paraskeuè (equipaggiamento). Una memoria sveglia nello “zaino” e pronta alla bisogna durante l’ascesa che mira al vertice della montagna (questa scalata è anche un luogo allegorico, e non solo itinerario fisico reale del poeta) per lanciarsi oltre l’orizzonte. Una serie di riflessioni cioè meditative teorico-pratiche (poeticamente enucleate), orientate. Suggeriscono cioè di prendere posizione e di far in modo che ognuno e chiunque non dimentichi di farlo, se vuole cambiare il brutto mondo che, comuque, nonostante tutto, ha contribuito a costruire. E che lo faccia lasciando il giorno e rivolgendosi alla notte (sollecita di inquietudine e di memorie non spente) e all’ascolto del suo sapere che pulsa, è solo un primo passo per non farsi stordire da una “luce” abbagliante e ottundente il silenzio che grida:


Lascia che spiri il giorno e la sua luce
– la luce vanità che si sbriciola
contro un muro di ossimori – la notte
piuttosto, chiama la notte

abisso di pace che non si dà pace
nel quieto sussulto dei suoni
misteriosi che la solcano, i richiami
dei rapaci in amore.

Lontano
si lamentano i cani e confonde
l'insonnia gli errori della vita
nel suo caotico baratro.

Dalla notte ci verrebbe la sapienza
se potessimo ancora sperare follia
e a lei torneremmo, fra le sue mura
quando il dubbio ci scalza alla radice
e al vento ci disperde come foglie
secche nell’abbaglio della luce. (Istruzioni per la notte, I)

La parola poetica di Lucini, del resto, non è mai autorefenziale: si nutre del contesto storico che costituisce insieme il suo alimento e la sua meta di ritorno potenziata dello star tutti bene. È lì che vuole ritornare senza tuttavia mentire del male e del potere che vi scorre e vi fa scorrere. Cos’è infatti quella “tristezza” che vi si lascia tutte le volte che si sposa la morte gratuita e colonizzante, se non la sottrazione di felicità e di bene che invece è la potenza del vivente impegnato nella storia? Una morte che violenta coscienze e popoli con razionalizzata programazione; che sacrifica oppressi, poveri e innocenti (più di quanto non faccia la naturale esposizione della vita alla morte e al dolore dei processi) non può non essere che tristeza responsabile o malessere causato e variamente consumato. E non compete solo alcuni, se i più hanno delegato e girato l’angolo!
Questa parola di Istruzioni non è dunque nuda e asettica regola settorializzata. Ci troviamo di fronte a una pratica di riflessione e giudizio che il poeta Lucini raccomanda a tout le monde come un sapere pratico e praticabile dai tutti che desiderano “cacciare dal tempio” i procuratori del “si vis pacem, para bellum”. La “parole” del poeta non è rivolta solo a quei pochi lettori dei suoi testi, e che, nell’ultima sua opera edita, VILIPENDIO, conta in numero di “quattro o cinque”.
Istruzioni è un luogo d’esercizi di “pensiero poetico integrale” (G. Lucini, Pensiero poetico e critica integrale dell’arte) e di verità messa a nudo in forma di poetiche istruzioni in versi. Una poetica lettera lasciata a noi che attreversiamo, e siamo attraversati, da quest’altro secolo in preda alla “banalità del male” e degli automatismi deresponsabilizzanti.
E qui, in questo dire poetico luciniano la verità, solo per inciso, ci piace ricordare una risonanza spinoziana. Spinoza, infatti, rispondendo al sigr. E. Oldenburg Oldenburg, che lo interrogava sui mali – i mali del dominio e delle guerre di religione e non, o della logica duale dell’esclusione – del tempo (il XVI secolo), tagliava corto e diceva: «a me sia dato di vivere per la verità».
Non diverso dai dualismi guerregiati di quel tempo, infatti, da questo punto di vista, l’oggi non è molto diverso dall’ieri di Spinoza. L’economia del bene e del male di questo nostro XXI secolo, o la memoria (non smentita) che ci ha lasciato in eredità lo stesso XX secolo, gira ancora con la logica dell’esclusione assoggettante e asservente. E di fronte a tutto questo il ruolo dell’artista e del poeta – dice Lucini – non può pensare di lasciar correre le regole esclusive e violente di questo mondo, o di estraniarsi e isolarsi.
L’artista deve posizionarsi come un agitatore di eresie (rivoluzionarie!), un innovatore eretico! Non c’ è sistema, ci dice il poeta Gianmario Lucini, che possa «illudersi di vivere sempre dentro le regole che si è dato, che la sua cultura ha trovato: se così facesse, invecchierebbe subito, si sclerotizzerebbe, diventerebbe un ammasso di cellule morte e di ferraglia neppure buona per il riclico» (G. Lucini, Pensiero poetico e critica integrale dell’arte, p. 49). Il ruolo dell’artista è quello «di essere eretico, di essere testimone di una verità, pur senza la pretesa di possederla – nessuno, infatti, possiede la verità, perché essa […] appena conosciuta ci sfugge dalle mani e si allontana: ma è soltanto così che no possiamo sempre più allargare il nostro orizzonte» (Ibidem). Quando la cultura, ogni cultura, si barrica e ostacola ogni tentativo di innovazione radicale e rivoluzionaria è respinto e osteggiato, combattuto fino alla morte. Ma la morte, praticata o subita, è la fine di ogni cosa e di ogni condotta che non sia l’annientamento proprio e dell’altro!


Antonino Contiliano