Cosa c’è dentro le dune del parco archeologico di Selinunte?
Quando negli anni ’80 furono realizzate per proteggere il parco dall’avanzata dell’abusivismo edilizio, il concetto di “riempimento” era trattato con un una certa creatività, rappresentando spesso un’occasione per poter interrare di tutto: da scarti di edilizia a vecchi motorini dell’acqua e lastre di eternit, fino a carcasse di automobili.
Nella demolizione della prima duna, durante i lavori di riqualificazione del 2012 finanziati dall’unione europea, i rifiuti cominciarono a spuntare e il cantiere fu sequestrato.
Sui quotidiani si fece un gran parlare di un copertone, di un cestello di lavatrice e di mezzo palo della luce, trovati sì dentro la duna, ma interrati in un periodo in cui le leggi sui rifiuti erano diverse da quelle di oggi.
In realtà però il sequestro avvenne in realtà perché fu ipotizzato il reato di illecita gestione di rifiuti, attraverso lo “smaltimento operato tramite spianamento degli stessi con mezzi meccanici sul terreno antistante”.
Furono rinviate a giudizio 5 persone: l’allora direttrice del parco Caterina Greco, l’allora capo dell’ufficio tecnico del Comune di Castelvetrano Giuseppe Taddeo, l’amministratore della ditta Ipe Francesco Seidita, l’ingegnere responsabile del procedimento amministrativo Danilo La Rocca e l’incaricato della vigilanza dei lavori per conto del parco archeologico Luigi Lentini.
Ci furono varie udienze, ma alla fine furono tutti assolti “perché i fatti non sussistono”. Ciò nonostante i lavori non ripresero, l’impresa si ritirò e nessun’altra delle 14 contattate che avevano partecipato al bando volle continuare l’opera.
Prima della sentenza assolutoria, ce ne sono delle altre che riguardano la revoca del sequestro preventivo.
Avevano infatti fatto ricorso al Tribunale del Riesame, Pietro Vito Putaggio, titolare dell’impresa proprietaria dei mezzi meccanici e Bartolomeo Marino, rappresentante legale della Puma srl, aggiudicataria dell’appalto insieme alla Ipe.
Entrambe le istanze però furono respinte anche dalla Corte Suprema di Cassazione, che ne ha rilevato l’infondatezza.
I punti “forti” della richiesta di revoca del sequestro del cantiere si basavano principalmente su tre elementi: sul fatto che “all’atto del sequestro i mezzi non erano in movimento, cosicché non vi sarebbe alcuna prova dell’utilizzazione degli stessi per la commissione dei reati ipotizzati”; su una legge che “equipara i materiali da riporto utilizzati in situ ai sottoprodotti, sottraendoli pertanto alla disciplina sui rifiuti”; e sul fatto che “i rifiuti rinvenuti risultavano accantonati nello stesso cantiere in attesa del successivo smaltimento, configurandosi così un’ipotesi di deposito temporaneo”.
Tutte considerazioni sonoramente bocciate dalla Corte Suprema di Cassazione che, avendole considerato destituite di fondamento, ha precisato che “non hanno alcuna attinenza con quanto descritto nel provvedimento impugnato, ove si fa inequivocabilmente riferimento ad una duna composta, come si è già detto, da ‘materiali da riporto di provenienza antropica, oltre che da rifiuti di vario genere, costituiti da sfabbricidi ed elettrodomestici’ in nessun caso qualificabili come ‘suolo’ o ‘materiale allo stato naturale escavato’”.
Poi ha considerato il deposito temporaneo possibile soltanto nel caso di rifiuti propri e non prodotti da terzi, mentre “il raggruppamento dei rifiuti deve avvenire nel luogo di produzione dei rifiuti medesimi”.
Ora, è difficile immaginare che un copertone, mezzo palo della luce ed un cestello di lavatrice siano stati prodotti dalle imprese che lavoravano al parco.
Così come mattoni, piastrelle, vecchi pezzi di ferro ed altro che, più o meno sbriciolati, fanno parte di questo “materiale terroso di riporto di provenienza antropica” che è stato spianato in abbondanza nel terreno circostante, facendo sì che la superficie del parco si innalzasse di parecchie decine di centimetri.
Per questi motivi la richiesta di revoca del sequestro era stata respinta in Cassazione.
Si tratta degli stessi argomenti che poi sono stati ripresi nel corso del dibattimento, in cui la vicenda comincia pian piano ad assumere dei contorni completamente diversi. Fino ad arrivare al dissequestro e all’assoluzione di tutti gli imputati perché i fatti non sussistono. Una sentenza in apparente contraddizione rispetto alla posizione della Cassazione relativa al rigetto della revoca del dissequestro del cantiere.
Ma la Cassazione si era espressa sulla base degli iniziali rilievi della polizia giudiziaria che però, almeno così sembra, hanno poi ricevuto una sorta di controesame attraverso un successivo sopralluogo del Tribunale il 28 maggio del 2013, con un perito appositamente nominato (dott. Pietro Indorato) per l’esecuzione di riprese video e fotografie dei luoghi.
Dall’esito di questo sopralluogo e dalle prove dedotte dalla difesa degli imputati, la sentenza ha quindi deciso che il materiale emerso dalla demolizione della duna “era costituito esclusivamente da materiale terroso, sabbioso, e argilloso di provenienza antropica, non qualificabile come rifiuto”.
E per quanto riguarda il mezzo palo della luce, il copertone e il cestello di lavatrice, ecco spuntare una novità: non provenivano dalla duna.
Nella sentenza si legge: “Si è verificato che tra la duna dismessa e la pubblica via (Via della Cittadella) esisteva una recinzione metallica e che gli unici ‘rifiuti’ ritratti nelle fotografie in atti (acquisite su istanza del P.M, delle difese, nonché effettuate dal perito designato in occasione del sopralluogo giudiziale), costituiti da pali elettrici, pneumatici e parti di elettrodomestici non provenivano dalla duna (che come detto era costituita essenzialmente da materiale terroso), essendo stati rinvenuti frammisti alla fitta vegetazione dagli operai dell’impresa appaltatrice durante il breve periodo di svolgimento dei summenzionati lavori”.
Ma se i rifiuti non furono tirati fuori dalla duna, allora da allora da dove venivano?
Secondo la sentenza è “assolutamente verosimile che i citati rifiuti fossero stati gettati nel corso degli anni all’interno dell’area del parco dalla strada esterna posta al di là dell’inferriata metallica”.
E al momento è difficile dire chi può aver sentito il bisogno di lanciare oltre la recinzione mezzo palo della luce, pubblico, di quelli pesanti in cemento armato.
Certo, le sentenze (anche se di primo grado) non si discutono, ma è curioso notare come il giudice citi l’articolo 183 del d.lgs 256 del 2006 che consente il “deposito temporaneo” dei rifiuti per il periodo di un anno prima della loro raccolta, e che permette tale deposito “nel luogo in cui gli stessi sono stati prodotti”.
Il luogo di “produzione” dei rifiuti però non è affatto l’area del parco archeologico, dal momento che al parco non si producono rifiuti di questo genere. Oltre al fatto che, proprio secondo la sentenza, sarebbero stati prodotti da terzi e lanciati all’interno oltre la recinzione. Sembrerebbe una differenza di poco conto, ma non lo è.
Tanto che nello stesso articolo, il luogo di produzione dei rifiuti viene definito così: “uno o più edifici o stabilimenti o siti infrastrutturali collegati tra loro all'interno di un'area delimitata in cui si svolgono le attività di produzione dalle quali sono originati i rifiuti”.
Il Ministero dell’Ambiente invece, sull’utilizzazione delle terre e rocce da scavo, in un decreto del 2012 (il n. 161) stabilisce invece nel 20% la quantità di materiale di origine antropica che può essere frammista al terreno naturale, in modo che il tutto possa essere riutilizzato.
L’impressione è che fin quando si continuerà a far finta che nelle dune non ci siano rifiuti da smaltire, sarà difficile che un’impresa possa accettare di svolgere delle opere di riqualificazione. Il rischio di trovarsi impreparata sullo smaltimento, soprattutto dal punto di vista economico, è talmente alto che, se non verrà messo sul piatto un impegno concreto da parte del Comune, la riqualificazione del parco archeologico farà la fine della Salerno - Reggio Calabria.
Egidio Morici