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23/01/2017 13:30:00

Le parole del potere

 di Antonino Contiliano - Dimmi specchio del reame, quale fra le parole del bestiame è la più ricca di letame!
Il capitalismo non conosce trasformazioni se non per perpetuare se stesso. Il suo modello si basa sulle diseguaglianze, lo sfruttamento e le altre vie (già note, ma sempre più spesso dimenticate e/o negate come quella maestra della valorizzazione espropriativa) a proprio uso e consumo. Le sue asimmetrie di potere e la correlazione degli apparati che lo sostengono sono le chiavi del comando dei pochi che, potenti e padroni sui molti, ne beneficiano elevandosi a intoccabili. Non diverso orientamento, anzi più marcato e deciso, ha la fase in corso della sua riaccumulazione-ricapitalizzazione, quella che prende il nome di capitalismo finanziario. La fase che ha identificato economia reale e fittizia o virtuale che si voglia dire. Il nesso vitale cioè che, devastante, ne ha amplificato e intensificato il dominio di classe e lavorato per svuotare le stesse vecchie forme democratico-liberali, incrementare le diseguaglianze sociali, le povertà e l’immiserimento generale. Come dire che la macchina del capitalismo con i suoi proprietari e protettori non ha nessuna vocazione democratica (né ristretta né allargata). E di questa macchina tritatutto, una parte non indifferente è costituita da parole tipiche che fanno girare la ruota del commercio della comunicazione individuale e sociale.
Il potere del sistema ha in proprio anche una neo-lingua taglia-teste. Sono le sue parole di sfondamento come, per esempio, banksters, prosumers, workfare, finanza e lavoro creativi, società offshore, shadow paradise, hedge fund, future, valore aggiunto, stile di vita, derivati, swap, cartolarizzazione, “project bond”, job act, working poor, accumulazione di know how, smart working, etc. Un vocabolario che, pur diffuso nel nostro quotidiano, non sempre e non per tutti va in giro tuttavia con assunzione di consapevolezza storico-critica circa il loro relativo peso formattante quantitativo e qualitativo.
È stato valutato che, nel 2010, per esempio, il valore dei “derivati” in circolazione nel mondo ammontava a 1,2 quadrilioni di dollari, mentre il prodotto interno lordo di tutti i paesi del mondo arrivava a mala pena a 60 trilioni di dollari.
Ora a quanti di noi è chiaro il gioco dei diversi elementi che entrano in queste partite, se è vero che in parte si confida nel passivo mimetismo o nei buchi provocati dall’uso della lingua straniera, di idioletti volanti, o di acronimi e neologismi di cui poco si sa, mentre il perché del conio e degli stessi scopi di classe è vietato dalla deriva de-ideoligizzante (forse necessiterebbe un piccolo dossier esemplificatore ad uso e consumo dei cittadini-clienti-consumatori inavvertiti!).
Non è questione di persone al comando della macchina! I suoi protagonisti (imprenditori, banchieri, manager e top manager, consiglieri economici, etc.) nelle sale di bottoni infatti si sostengo a vicenda. Si interscambiano in girotondo mediante il sistema delle “porte girevoli” e a danno delle Collettività. Si preoccupano di tutelare e assicurare solamente i propri interessi e le ricchezze stratosferiche ammucchiate (come i “prodotti finanziari”). La loro arroganza non ha freni da temere, se le stesse componenti politico-istituzionali pubbliche ne curano frodi e patrimoni, mentre controllori e controllati a mala pena svolgono funzioni separate.
Il capitalismo va solo abbattuto dalle fondamenta e con lui le sue parolazioni d’ordine.


Le parole del potere

Tra le parole del potere, il sistema delle porte girevoli (pratica iniziata dagli Usa e poi adotta dai fratelli neocapitalistici dell’alleanza europea) rappresenta, forse, il mutuo soccorso più amato e praticato. Il sistema delle porte girevoli è quello per cui gli stessi manager – politici, banchieri, consulenti, etc., pastori ed evangelizzatori del liberismo capitalistico, passano con disinvoltura da una parte all’altra delle stanze ignorando il conflitto di interessi quando sono nell’esercizio delle attività e negli atti del governo pubblico.
In Italia, uno degli esempi più lampanti, oltre a un miliardario imprenditore (S. Berlusconi) che si fa politico e presidente di alcuni dei recenti governi del nostro passato, è quello del governo tecnico di Mario Monti. Banchiere di professione, Mario Monti, dietro designazione da parte della troika (Fmi, Bce, Ce), diventa presidente di uno dei governi italiani più allineati al consolidamento del modello del capitalismo finanziario ordo-neo-liberista. L’azione inaugurata da Mario Monti ha avuto poi seguito con i governi successivi, fino a Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Il bocconiano Mario Monti, «professore di economia di provata fede liberista, editorialista del Corriere della Sera e già consulente del colosso della finanza globale Goldman Sachs. Uomo (corsivo nostro) di fiducia […] dei mercati», ha avviato una serie di riforme antidemocratiche (o postdemocratiche, come qualcuno dice), quali 1) riforma delle pensioni (spostare l’età del pensionamento), 2) la flessibilizzazione del mercato del lavoro attraverso la riduzione delle tutele contro i licenziamenti; 3) la riforma costituzionale (articolo 81) – Fiscal Compact – in base al patto europeo che obbliga gli Stati membri a cede­re la propria sovranità fiscale e di bilancio all’approvazione della Commissione e alla Corte di Giustizia europee.
Scrive Paolo Maddalena, Vicepresidente onorario della Corte Costituzionale, all’Assemblea del Coordinamento Democrazia Costituzionale, che in Italia non mancano le leggi che introducono e legittimano le pratiche della finanza creativa-speculativa degli stessi Enti Locali. La legge n. 448 del 2001 (finanziaria 2002) per esempio «autorizza gli enti locali a pareggiare i propri bilanci con i “derivati”, che la legge stessa denomina “swap”. La legge n. 130 del 1999, disciplina invece (corsivo nostro) la “cartolarizzazione dei diritti di credito”, cioè di un particolare tipo di derivati che fanno derivare il “valore” economico del titolo stesso dal “pagamento” o dal “mancato pagamento” dei “debiti cartolarizzati”. […] ci sono ancora leggi che prevedono un’altra forma di “derivati”, i “project bond”, il cui “valore” deriva dal fatto che la costruzione di una determinata opera pubblica “produca” o “non produca” un aumento di valore degli immobili circostanti […]. Questi “titoli commerciabili” sono […] delle obbligazioni, per così dire, “a rischio” […] e servono per “trasferire” sugli acquirenti” il “rischio” insito nel titolo stesso».
Se poi questi titoli servono per pareggiare i bilanci di una banca che non può fallire, ovvero un ente pubblico territoriale, è chiaro che il rischio di questa finanza “criminale”, in mano ai banksters (banchieri gangsters, sena scrupoli), come hanno fatto scuola gli esempi americani, e complice anche l’intervento diretto e consapevole del potere politico e pubblico, i danni poi vengono direttamente trasferiti sulla collettività.
Uno di questi esempi, come scrive Carlo Formenti (Utopie letali) è lo scandalo americano LIBOR (Il London Interbank Offered Rate). LIBOR è il tasso interbancario che, cal­colato giornalmente in base ai tassi di interesse richiesti per certi prestiti, tratta l’indice del costo del denaro a breve e serve a calcolare gli interessi relativi a nu­merose operazioni finanziarie; e tra queste mutui e future. Nell’estate del 2012 si scopre che il gruppo Barclays ammette di aver manipolato l’indice in questione e pa­ga solo una multa di 450 milioni di dollari a fronte di miliardi sottratti ai clienti prestando loro soldi a tassi di interesse “gonfiati”. Nello scandalo sono coinvolti anche i colossi bancari JP Morgan Chase, Citygroup, Bank of America e UBS. Bankisters de finanza creativa sono al servizio delle banche private (come la Rothschild, la Goldman Sachs e la J. P. Morgan che fanno il Fmi- sigla che raggruppa 12 banche private; anche la Bce è un assemblaggio di 18 banche private). Queste erano troppo grandi per colpirle e farle fallire. Anzi, come si è lasciato scappare il ministro della Giustizia dell’amministrazione Obama, Eric Holder, le banche coinvolte erano “troppo grandi per essere incriminate”. Che incriminare «corporation di tali dimensio­ni avrebbe rischiato di provocarne il fallimento, innescando una rea­zione a catena di dimensioni imprevedibili. Nemmeno una petizione sottoscritta da centomila cittadini americani che chiedevano all’ammi­nistrazione di scindere le grandi banche in società più piccole e di pro­cessare i criminali che si sono serviti del loro potere per distruggere l’economia ha sortito effetti. Anzi […] l’ineffabile Holder […] ha anche annunciato l’intenzione di perseguire veramente sia le “gole profonde” che trasmettono ai giornalisti notizie riservate, sia i giornalisti che le rendono pubbliche».
Lo stesso presidente Obama non prese misure energiche per frenare le speculazioni bancarie, mentre a suo tempo il presidente Bill Clinton abolì la stessa legge Glass-Steagall che (varata nel 1933) aveva posto fine alla commistione fra attività bancarie e attività speculative.
Ma lo choc è l’aggravarsi della divaricazione fra una esigua minoranza di ricchi e la stragrande maggioranza dei cittadini e delle famiglie americane. «Una ricerca condotta da Pew Research Social & Demographic Trends rivela che gli otto milioni di famiglie america­ne più ricche hanno intascato 5,6 trilioni di dollari dal 2009 al 2011, mentre tutti gli altri (111 milioni di famiglie) hanno perso 669 miliar­di di dollari. Da un’altra ricerca, condotta dalla University of Califor­nia e citata dal New York Times, risulta che, più o meno nello stesso periodo, i guadagni dell’1 % sono cresciuti mediamente dell’11,2%, mentre quelli del restante 99% sono calati dello 0,4%. Infine un libro di Bruno Cartesio fornisce dati ancora più impressionanti: uno statunitense su sei vive in stato di povertà; la disoccupazione e la sottoccupazione (non quelle ufficiali, ma quelle reali, che tengono conto anche di chi non cerca più lavoro, e di chi vorrebbe un lavoro a tempo pieno ma trova solo lavori part time o a tempo determinato) coinvolgono 24 milioni di persone (pari al 15% della forza lavoro). Infine i poveri sono, nella stragrande maggioranza, working poor, cioè gente che lavora ma percepisce salari talmente bassi che non consentono di uscire dalla condizione di povertà».
Come non ricordare anche lo choc dei colossi dell’industria hig tech o delle multinazionali dell’informazione creativa come Google, Apple che evadano le tasse e se ne gloriano senza che il potere pubblico mostri un minimo di reazione credibile.
Secondo i risultati di un’indagine del senato americano Apple - tra il 2009 e il 2012 – «ha evaso tasse per una cifra pari a 74 miliardi di dollari (un milione all’ora!) sfruttando “una complessa rete di entità all’estero, senza dipendenti né sedi effettive”. La socie­tà di Copertino ha replicato sostenendo di non avere commesso illega­lità, in quanto l’accusa si riferisce ad attività svolte in Irlanda nel più rigoroso rispetto delle leggi fiscali di quel Paese. Una linea difensiva identica a quella adottata qualche mese prima dal presidente di Google, Eric Schmidt, il quale, di fronte alle rimostranze di una serie di Stati-nazione (fra cui Inghilterra, Francia e Italia) che accusano la società di Mountain View di avere trasferito miliardi di dollari in una società di comodo con sede alle Bermuda, non si è però limitato a rispondere che tutte le operazioni effettuate da Google sono perfettamente lega­li, ma ha aggiunto di essere “orgoglioso” delle procedure di “ottimiz­zazione fiscale” messe in atto e ha completato il concetto con la se­guente dichiarazione: “Non abbiamo intenzione di pagare più tasse. Si chiama capitalismo. Siamo orgogliosamente capitalisti”».
Se un milione all’ora legalmente e orgogliosamente sfugge al controllo fiscale, non meno è il monte degli extraprofitti illegali. Tonino Perna (“Alfabeta2”/, Aprile/2011) scrive che l’extraprofitto dei “mercati illegali”, quello del capitale criminale (colluso e aggiornatosi con le nuove forme di illegalità legalizzata del capitalismo) è calcolato “tra il 3 e l’8% del Pil mondiale”6 (cioè 74 trilioni di dollari). Andrea Fumagalli (“Alfabeta2”, Dicembre/2011 scrive che  nel 2010, per esempio, lo stesso Pil mondiale del sistema-mondo era inferiore a quello delle borse e delle banche entrate in fusione. Il primo era di soli 74 miliardi (dollari), mentre quello delle borse era invece di 50 miliardi, quello delle obbligazioni finanziarie di 95 miliardi e quello degli altri strumenti quali  i derivati era di 466 miliardi. Il potere dei mercati finanziari era accresciuto e non meno – aggiunge il Fumagalli – il pil delle fusioni bancarie. Tra il 1980 e il 2005 (secondo i dati pubblicati dal Fmi) si sono registrate 11.550 fusioni bancarie e ridotto il numero delle banche a 7.500, mentre 5 (cinque) società d’affari (J. P. Morgan, Bank of America, City-bank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e 5 (cinque) banche (Deutesche Bank, Ubs, Credit Suisse, City-corp- Merrill Linch, Bnep-Parisbas) detengono (al 2011) il controllo di oltre il 90% dei titoli derivati e le prime 10 (dieci) società d’affari quotate in borsa, pari allo 0,12% delle 7800 società registrate, detengono il 41% del valore totale, il 47% dei ricavi e il 55% delle plusvalenze registrate.
E cosa dire dello choc del lavoro leggero, flessibile e precario che si fa auto-imprenditore hi-tech e accumula miliardi con pochi dipendenti in onore della disoccupazione crescente o del lavoro smart?
In Come salvare il capitalismo (2015, edizione italiana), Robert B. Reich rileva che in America nel 2014 i servizi con attività produttiva di routine, ossia i lavori ripetitivi o standard come quelli che si svolgono in una catena di montaggio o di ufficio, sono scesi al 20%, mentre la loro «retribuzione al netto dell’inflazione è inferiore del 15 per cento rispetto a vent’anni fa. […] nel 2014 l’autovettura senza conducente di Google ha posto una serie minaccia all’attività di circa 4,5 milioni di tassisti, camionisti, autisti di autobus e netturbini ».
Dall’altro lato gli ipermercati dell’e-commercio, come Walmart o Amazon, che sono a bassa mano d’opera d’impiego, realizzano profitti stratosferici prima impensabili. Così, se l’esempio Walmart (il datore di lavoro privato più grande nel mondo) con 1,8 milioni di dipendenti in 15 paesi» e il suo porto prodotto/addetti fosse seguito da altre aziende, «basterebbero 300 milioni di lavoratori per produrre l’intero pil planetario, lasciando a spasso oltre 2 miliardi di disoccupati».
Non meno esemplare è il caso di Amazon che con i suoi 60 mila impiegati genera «un fatturato da 70 miliardi di dollari, laddove un’impresa tradizionale avrebbe bisogno di 600 mila dipendenti».
Nel 2012 Instagram (il sito di condivisione foto), acquistato da Facebook per circa un miliardo di dollari, «aveva tredici dipendenti e trenta milioni di utenti […] mentre (corsivo nostro) KodaK – che qualche mese prima aveva presentato istanza di fallimento – al suo apice dava lavoro a centoquarantacinquemila persone».
Il mondo della produzione automatizzata e neoliberistica ridefinisce la semantica dei concetti di lavoro, lavoratori e abilità loro richieste. Un vero e proprio ampliamento, si potrebbe dire del workfare, il lavoratore che si deve dare da fare per trovarsi un lavoro mentre è assistito o imbrigliato nel “lavoro smart”.
Esemplare, in questa direzione, – scrive Luca Mori (discutendo, insieme con Giovanni Mari e Ubaldo Fadini, sul libro “La nuova rivoluzione delle macchine di Erik Bryolfson e Andrew McAffe) –, è «l’introduzione del concetto di “lavoro smart” in continuità con la tendenza che ha portato alla diffusione di espressioni come “smart mobs”, “smartphones”, “smart rooms”, “smart cities” , “smart communities”, “smart environnements”», “smart clothes” e così via».
Il lavoro smart – lavoro agile (sull’esempio dell’inglese “smart working”) – non è che un’altra forma di sfruttamento del lavoro mobile, flessibile e precario. In Italia fra l’altro sembra essere oggetto di un prossimo disegno di legge (è già in giro per le aule del Parlamento italiano, gennaio 2016). Questa nuova forma di “lavoro agile” subordinato prevede che una parte di tempo sia impiegata in azienda e, nel caso di assenza di postazione in azienda, la restante svolta in connessione di rete grazie agli strumenti smart che permettono la condivisione e il controllo in connessione.
Quanto dire che il tempo di vita di ognuno, in cerca di lavoro e senza una ripresa antagonista di classe allargata, grazie all’hi-tech capitalizzata sarà esposto ulteriormente alla permanente, onnivora e predatoria logica della valorizzazione delle leggi del capitalismo neoliberistico nonostante il tempo di lavoro sia svolto dalle macchine e dalle connessioni di rete.
Il parziale furto di tempo lavorativo e della forza-lavoro degli individui dell’ieri (divisione tra tempo di lavoro e tempo libero), praticato dalla vecchia industrializzazione per l’accaparramento del plusvalore del pluslavoro, ora, nell’hi-tech della valorizzazione capitalistica (come aveva anticipato Marx analizzando la funzione dell’introduzione delle macchine nei processi lavorativi della società capitalistica), pare invece abbia ceduto il posto al suo assorbimento totale (capitale fisso) e all’annesso sfruttamento assoluto e reso superfluo lo stesso lavoratore. «Le macchine si presentano così come la forma più adeguata del capitale fisso, e il capitale fisso, se si considera il capitale nella sua relazione con se stesso, come la forma più adeguata del capitale più in generale. […] In quanto poi le macchine si sviluppano con l’accumulazione della scienza sociale, della produttività in generale, non è nel lavoro, ma nel capitale, che si esprime il lavoro generalmente sociale. […] La scienza si presenta, nelle macchine, come una scienza altrui, esterna all’operaio; e il lavoro vivo si presenta sussunto sotto quello oggettivato, che opera in modo autonomo. L’operaio si presenta superfluo, nella misura in cui la sua azione non è condizionata dal bisogno (del capitale)».
E se così va questo mondo non è difficile capire perché morendo tra non occupazione, disoccupazione, indebitamenti infiniti, guerre e fame è necessario e non più rinviabile dare fuoco al sistema.