Negli anni Ottanta, quando lo Stato avviò la guerra contro Cosa nostra culminata con il maxiprocesso, "all'interno delle istituzioni c'era chi definiva Giovanni Falcone uno sceriffo. Perché aveva avuto un nuovo approccio investigativo che stava portando grandi risultati". E' la denuncia di Sergio Lari, oggi Procuratore generale di Caltanissetta, amico e collega di Giovanni Falcone, che a 25 anni di distanza dalla strage di Capaci, ricorda il periodo precedente all'uccisione del suo collega, della moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta. Lari, raccontando a una platea di studenti all'Università di Palermo la lotta alla mafia 25 anni dopo le stragi, ricorda anche come Falcone "fu delegittimato anche dal mondo delle istituzioni", ricordando il suo "rapporto tormentato con le istituzioni".
Inevitabilmente, Sergio Lari ha raccontato anche delle "nuove e complesse indagini" avviate sulle stragi mafiose, dopo le dichiarazioni choc del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza che ha fatto riaprire il processo e fatto scarcerare sette persone che erano state ingiustamente condannate all'ergastolo. "Mi sono dovuto cimentare, a distanza di sedici anni, su nuove indagini - spiega - sembra una storia quasi romanzata, ma è la realtà".
"Mi ero insediato da Procuratore capo di Caltanissetta il 10 aprile 2008 e tutto avrei immaginato fuorché a distanza di tre mesi mi sarei trovato sulla mia scrivania i colloqui investigativi di Gaspare Spatuzza, uomo d'onore di Cosa nostra, già reggente di Brancaccio. Il collaboratore confessò di avere ucciso una quarantina di persone e di avere partecipato a tutta la campagna stragista di Cosa nostra iniziata il 23 maggio del '92 e terminata nel '94 con il fallito attentato all'Olimpico di Roma, che avrebbe provocato la morte di duecento carabinieri. Attentato che per fortuna fu evitato".
"Lo scenario era allarmante - dice ancora Sergio Lari - Si aprivano piste inedite sulla strage del '92 che facevano emergere il protagonismo del'mandamento di Brancaccio . Non venivano messe in discussione le 37 condanne all'ergastolo per i capi i Cosa nostra, viceversa la confessione di Spatuzza riguardante un importante segmento esecutivo della strage di via d'Amelio, come il furto dell'autovettura, delle targhe da una macchina rubata e poi imbottita di esplosivo, tutto questo metteva in discussione le dichiarazioni che erano state rese nel processo Borsellino da 4 collaboratori come Candura, Scarantino, Pulci e Andriotta. Dichiarazioni che avevano portato alla condanna di undici persone, di cui sette all'ergastolo
e lo stesso Vincenzo Scarantino a 18 anni di carcere".
"Si profilava, sul piano investigativo uno sforzo enorme - dice ancora Sergio Lari - significava recuperare in quella massa di processi le tessere false che qualcuno aveva inserito e trovare contemporaneamente le tessere mancanti, una indagine che andava condotta su un doppio binario".
E ricorda che la prima cosa da fare era quella di "fare scarcerare le persone ingiustamente condannate".