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16/06/2017 06:00:00

«Senza lettura e poesia, siamo solo degli analfabeti di ritorno». Parla Roberto Deidier

 

di Marco Marino - Fra le più interessanti e autorevoli voci del panorama letterario nazionale, Roberto Deidier fa parte della lunga e fortunata tradizione dei poeti-critici. Dopo aver vinto il premio Mondello Opera prima con il libro di poesie Il passo del giorno (Sestante, 1995), ha scritto altre quattro raccolte: il suo ultimo lavoro in versi, dal titolo Solstizio, è uscito nel 2014 per la collana Mondadori Lo Specchio. Sul versante della critica, invece, è necessario ricordare i suoi attenti e preziosi studi sulla figura e l’opera del poeta umbro Sandro Penna, un lavoro ventennale che troverà sintesi nella pubblicazione di un Meridiano Mondadori - in uscita il 13 giugno - con la sua curatela.

 

 

 

 

1. Nel 1989 debutta come poeta sulla rivista «Tempo presente»: alla sua attività in versi ha sempre affiancato il rumore sottile della prosa ovvero l’opera di critico e accademico. Quanto il fare poetico ha influenzato il suo modo di scrivere e intendere la critica letteraria? E viceversa, il mestiere di critico ha avuto ripercussioni sulle sue sillogi? 

 

 

 

 

 

MI hanno rivolto spesso questa domanda, e mi accorgo che nel tempo le mie risposte sono cambiate. Da ragazzo sostenevo di coltivare una sorta di schizofrenia, tenendo le due attività ben separate, considerando l’una una vocazione e l’altra un mestiere. Quando cominciai a insegnare, intorno ai trent’anni, ripetevo a tutti di sentirmi un poeta prestato all’università, e in fondo continuo a pensarla così: non ho mai voluto prendere dimestichezza con certe dinamiche accademiche, con la burocrazia, con l’esercizio del potere. Semplicemente non m’interessano. Mi piace ancora leggere, studiare, aggiornarmi, piuttosto, e mantenere un rapporto vivo con gli studenti. Oggi mi accorgo che la mia scrittura critica si è fatta sempre meno tecnica e più discorsiva, senza perdere in rigore, ma non saprei dire se questo sia un effetto della vicinanza della poesia. Quello che posso dire è che i critici che ho amato di più sono stati tutti poeti: da Auden a Brodskij, a Walcott, e per restare in casa nostra, Giudici, Fortini, Raboni. Le parole che mi erano necessarie le ho trovate nelle loro pagine in prosa, non negli esercizi dell’accademia. Rileggo sempre con profitto le pagine di Brodskij su Rilke e su Frost, per esempio: per me rappresentano un vertice dell’interpretazione. Al contrario, la mia attività critica non ha riguardato solo la poesia: gli affondi più significativi sono dedicati ad autori in prosa come Calvino. Eppure una lezione di stile e di rigore penso mi sia venuta, anche da questi prosatori: la poesia non deve nutrirsi soltanto di poesia. Per il resto è evidente che certe venature di pensiero che percorrono i miei libri in versi collimano spesso con le mie riflessioni sul lavoro altrui: un poeta che fa critica non può fare a meno di esprimere una poetica.

 

 



 

 

 

2. Qualche mese fa, a seguito di un articolo di Franco Manzoni su la Lettura n. 270, è scoppiato un animato dibattito sul verificarsi o meno di un Rinascimento della poesia nel contemporaneo panorama letterario ed editoriale italiano. La questione sembra ormai essere stata superata senza, però, alcun tipo di risoluzione. Lei cosa ne pensa a riguardo? È davvero in atto un Rinascimento della poesia?

 

 

 

 

 

Come vede resto ben lontano da certi dibattiti. A me sembra piuttosto che da una ventina d’anni si sia alzato un gran polverone. Da una generazione di pochi e parsimoniosi poeti, come la mia, si è passati a un ritorno prepotente alla scrittura in versi, col proliferare di piccoli editori e riviste online. E i giovani corrono a farsi pubblicare il primo libro. Ma quando tutti sono poeti (basta entrare in facebook per rendersene conto) nessuno lo è più davvero, e i pochi che hanno qualcosa da dire faticano a farsi vedere. Aspettiamo che la polvere cali e potremo riconoscere i libri destinati a durare. Siamo passati a una diversa sociologia, nel senso che la società letteraria che garantiva certi esordi non esiste più: oggi mi pare sia in atto una pratica diversa, un mercato del compiacimento, e nessuno sa più giudicare. Così come nessuno ha più l’autorità per garantire e promuovere. Insomma, non si fa più gavetta: a vent’anni si può già aver pubblicato due libri, essere redattori di tre riviste, dirigere una propria collana e magari millantare una candidatura al Nobel ed essere pure presi sul serio. È una situazione che si commenta da sé. A soffrirne, soprattutto, è la lingua della poesia.

 

 



 

 

 

3. Per molti la Sicilia è un'isola da cui partire - e sovente sfuggire - per lei, invece, è stata un luogo di approdo. Poco più che trentenne lascia Roma per trasferirsi nella città di Palermo, che arriva a considerare come una sorta di terra promessa. Da dove è sorto questo sentimento e in che modo tale legame con la terra siciliana trapela nella sua opera letteraria?

 

 

 

 

 

La Sicilia è stata una lenta conquista, un’esplorazione costante del territorio. Gli incontri non sono sempre stati felici, invece. Sono venuto qui per lavoro, quando dopo anni di borse di studio e precariato entrai in pianta stabile all’università di Palermo: allora non c’erano i voli low-cost e il pendolariato da Roma mi pesava molto. Così decisi di trasferirmi; presi una prima casa in affitto, dietro il teatro Massimo, poi un’altra dalle parti di piazza Marina, vicino a quella che infine ho comprato. Ho cominciato a frequentare gli scrittori palermitani, da Alajmo a Conoscenti alla Santangelo; Sellerio è divenuto il mio editore per la saggistica. Ho cercato di ambientarmi, ma non ho mai perso il contatto con Roma, dove torno appena posso: il mio vero lavoro, la poesia, è rimasto lì. A Palermo, e ad altri luoghi siciliani, ho dedicato diverse poesie raccolte in Solstizio. Sì, direi che la luce di quel libro è una luce mediterranea, isolana. Questa potrebbe essere una terra bellissima, se si cominciasse davvero ad amarla: non parlo di quel che resta del passato, sarebbe troppo semplice. Parlo del presente, del paesaggio di oggi, di quel che abbiamo sotto gli occhi, del tanto che si dovrebbe e potrebbe fare. Ma i siciliani, come lei dice, da qui vogliono solo scappare.

 

 

 

 

 

4. Il premio Nobel Odisseas Elitis diceva che la poesia è «l'unico luogo in cui la forza del numero non ha potere», eppure gli ultimi dati Nielsen sulla poesia in Italia e sui suoi lettori ci descrivono una realtà completamente ribaltata, in cui il numero dei poeti supera di gran lunga il numero di libri di poesia venduti: è possibile trascurare tale squilibrio? A cosa lo imputa?

 

 

 

 

 

È quello che le dicevo prima, ma stiamo attenti a non scambiare la causa con l’effetto. A monte di questo fenomeno c’è un pericoloso, micidiale connubio di dilettantismo e narcisismo. E di disinformazione. Un tempo avrei imputato la responsabilità anche ai media, che hanno sempre trascurato una seria informazione sulla poesia; oggi mi rendo conto che sono oberati di richieste di recensioni e va da sé che non c’è spazio per tutti, ed è divenuto sempre più difficile scegliere. Io stesso ricevo molti libri a cui non sempre riesco a stare dietro, nonostante la curiosità; e la vita a cui spesso siamo costretti sottrae spazio all’ascolto dei poeti, che richiede attenzione e tempi lunghi. Quanto al mercato della poesia, è ovvio che sia composto perlopiù di poeti; a chi altro interessa un genere che ci costringe a tornare fruitori attivi, nell’epoca delle immagini? Un genere che la scuola ci insegna a odiare, piuttosto che amare? C’è una totale diseducazione alla lettura, quindi non dobbiamo sorprenderci. Ma senza lettura, senza poesia, siamo solo degli analfabeti di ritorno.

 

 

 

 

 

5. Quest’anno si celebrano i quarant'anni dalla scomparsa del poeta Sandro Penna. Lei ha curato per i Meridiani Mondadori un volume - in uscita il 13 giugno – che ne raccoglie le poesie, le prose e le pagine di diario, restituendo ai lettori la possibilità di riscoprire un gigante, quasi dimenticato, del nostro Novecento: potrebbe parlarci del lavoro che ha portato alla realizzazione del meridiano?

 

 

È stato un lavoro durato ventisette anni, fatto di letture, approfondimenti, e naturalmente di esplorazione dell’archivio del poeta e di ricerche, che mi hanno portato in altre città, soprattutto Milano. Più mi addentravo in Penna più mi convincevo che dal punto di vista editoriale qualcosa non mi tornava, sorgeva in me il sospetto che quel Penna non coincidesse del tutto con l’immagine che il poeta voleva lasciare di sé. La conferma l’ho avuta ricostruendo la storia delle sue edizioni, nelle cui vicende sono sempre subentrate, come consulenti o editors, persone esterne. Insomma, Penna non è responsabile di nessuno dei suoi libri, a parte un’antologia del 1973, che nessuno ha più tenuto in considerazione. Sono ripartito da lì, con tutte le cautele possibili. Perché Penna è un gigante, come lei dice, ma anche un oggetto fragilissimo, che rischia di frantumarsi nelle nostre mani appena proviamo a stringerlo. In realtà non è mai stato dimenticato, ha sempre avuto lettori forti e autorevoli: eppure una buona parte della sua fisionomia, e della sua formazione, restava ancora in ombra. Spero che questo Meridiano aiuti a definirlo meglio, suggerendo nuovi filoni d’indagine.