Prima Riina e le intercettazioni dei suoi colloqui con l’esponente della Sacra Corona Unita, Alberto Lorusso. Dopo diversi mesi di indagini e di altre intercettazioni, ora a tenere banco sono le confessioni di “Madre Natura”, così come veniva chiamato dai suoi “picciotti” il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, le cui dichiarazioni per 15 mesi sono state captate dagli uomini della Dia durante le passeggiate e l’ora di socialità presso il carcere di Ascoli Piceno, con il compagno camorrista Umberto Adinolfi.
E sono tanti i temi che Graviano tocca. Parla del processo in corso sulla trattativa, per il quale si dice fiducioso: “Umberto, questo processo a me non dispiace, perché si dovrebbe scoperchiare che io sono innocente di tutto”. Parla di politica anche europea, sostenendo che l’Italia non può uscire dall’Europa. Ma tra le tante cose che Graviano racconta, c’è il tentativo di uccisione di Falcone a Roma, dove si è ritrovato assieme ad altri sette mafiosi, per giorni tra ristoranti e locali di lusso, e addirittura all’interno del Teatro Parioli, dove Falcone era ospite di Maurizio Costanzo.
C’è tra le conversazioni con Adinolfi una in cui Graviano parla del ruolo avuto dal boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro, che nell’occasione della spedizione romana per uccidere Falcone, fu lui a caricare a bordo di un’auto un vero arsenale, formato da kalashnikov, due revolver, alcuni mitra ma anche dell'esplosivo. E parlando di Messina Denaro c’è una conversazione di Graviano che interessa il senatore “D’Alìa” di Trapani che sarebbe fortemente legato al latitante di Castelvetrano. Per gli inquirenti il boss di Brancaccio sta parlando di un presunto rapporto tra il super-latitante Matteo Messina Denaro e Antonio D’Alì, senatore di Forza Italia, e protagonista della vicenda di Trapani che lo ha visto candidato alla carica di sindaco della Città e sconfitto al primo turno. Per anni l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio è stato sotto processo con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, accusa dalla quale è stato assolto, anche se durante questa tornata elettorale è stato nuovamente richiesto il soggiorno obbligato in quanto ritenuto socialmente pericoloso.
"C’è quello... trapanese (abbassa notevolmente il tono della voce, scrivono gli investigatori della Dia)...". E qua comincia un rimpiattino di nomi tra i due compagni, «D’Alema, D’Alia», ma il nome, secondo chi indaga, è quello di Tonino D’Alì. Agli atti del procedimento giudiziario andrà pure questo passaggio dell’intercettazione: «Questo, con quello che cercano... guardami, Umbè (fa un gesto di legame intrecciando le dita delle mani, scrive la Dia)... e c’è questa cosa che non mi è chiara».
Graviano in alcune intercettazioni ambientali parla di Berlusconi nei cui confronti è particolarmente risentito: (“Berlusca mi ha chiesto questa cortesia…per questo è stata l’urgenza di…lui voleva scendere…”); ha parlato con Adinolfi del tradimento della propria fiducia da parte dello stesso ex presidente del Consiglio (“Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi, per che cosa? Per i soldi, perché a te ti rimangono i soldi”); ha descritto i contorni del patto sancito con la trattativa Stato-mafia (“Ci sono state altre stragi, ma no che era la mafia, loro dicono che era la mafia. Allora il governo ha deciso di allentare il 41bis..”). E ha ricordato i favori ricevuti in carcere da lui e dal fratello, compresa la possibilità di concepire i propri figli in cella con le rispettive mogli.
In merito al processo sulla trattativa, Graviano riferisce ad Adinolfi: “Non capisco quali saranno gli altri personaggi indagati. Vabbè, già ci sono Totò Riina, Dell’Utri, Mancino, Bagarella. Ho l’impressione che per me non c’è niente... significa che prendono valido quello che ha detto Spatuzza. Quindi se ci sono io ci deve essere pure Berlusconi”
Parlando del pentito Gaspare Spatuzza, che avrebbe fatto il tentativo di far collaborare lui e il fratello Filippo, Graviano dice al suo compagno di ora d’aria di non conoscerlo e che con lui non si scrive. E per controbattere e smentire Spatuzza dice che i magistrati non hanno trovato niente su di lui riguardo alle stragi. Graviano parla dell’incontro al bar Doney di Roma, in cui proprio il capomafia condannato per le stragi del ‘92 e del ‘93 avrebbe detto al pentito la famosa frase «ci mettiamo l’Italia nelle mani». Frase che ha ripetuto ad Adinolfi: «Avevamo acchiappatu un paisi di chistu ni manu».
Pur avendo accusato Berlusconi e Dell’Utri di avere sollecitato i mafiosi a mettere le bombe, perché «mi hanno assicurato che siccome stanno scendendo in politica», il 27 marzo scorso Graviano è più cauto: «Nessuno più ha sentito mai niente, niente, niente di niente. Ora, dopo venticinque anni di questa storia...». Ricordano, i due detenuti, «il signor Franco», di cui aveva parlato Massimo Ciancimino, «Bernardo Provenzano, poi c’era Mori (ride, ndr)... sì, ma questi processi, questa storia... sarà sempre un mistero. I soliti misteri italiani: perché, c’è una strage... un qualche cosa che si è scoperta mai la verità? No?».
Altro aspetto che risalta dalle conversazioni di Graviano sono le sue parole sul presidente del Senato ed ex giudice Piero Grasso, in cui annuncia il tentativo di uccisione del figlio. "Lo sai cosa mi ha raccontato a me... - dice Graviano a febbraio dello scorso anno - quello che cercano (Matteo Messina Denaro, ndr) lui... Brusca, nel ‘96-‘97, prima che lo arrestassero, lo voleva uccidere, gli voleva sequestrare il figlio che andava a scuola a Palermo» e il superlatitante «gli ha detto di no». Come detto c'era in progetto di uccidere il figlio di Grasso. "Addirittura lo volevano ammazzare là... lo sai che il pentito La Barbera gli ha raccontato (a Grasso, all’epoca pm della Dna, ndr) come avevano preparato l’esplosivo... minchia quello ha detto ioooo ero! Glielo ha raccontato pure Brusca, se non era per lui...».
E tornando ancora alla politica, Graviano, che evidentemete ne è "appassionato" fino a seguire uno dei massimi esperti, il politologo scomparso recentemente Giovanni Sartori, se la prende ancora con Berlusconi, «il capo del partito... vigliacco, voltafaccia», così lo definisce. Adinolfi è sulla stessa lunghezza d'onda, parla di politici interessati «a fatti personali», rievoca il «61 a zero». E Graviano: «Per questo ti ho detto che o, tici oggi giusti non ne abbiamo. Quindi Umbè ... se l’Italia esce dall’Europa non ha futuro. Questo è il mio consiglio, poi io non sono un politico... un politologo... come Sartori».
Sulle dichiarazioni intercettate a Riina prima e ora a Graviano, oltre altre polemiche che normalmente generano, ci sono i dubbi sul fatto che quando parlano con i loro compagni d’aria, i boss non sappiano di essere ascoltati da qualcun altro? E che sapendolo, non dicano quello che serve loro per mantenere una supremazia dentro Cosa nostra.
Insomma, quando boss del calibro di Riina e Graviano parlano, bisogna fare tanta attenzione ed evitare solo i polveroni mediatici. A venticinque anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, l'Italia e i familiari delle vittime non possono accontentarsi di una verità che non è tale, buona solo per andare avanti solo qualche anno.