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13/07/2017 12:25:00

Il presidente del Tribunale di Marsala, Camassa, è intervenuta in Commissione Antimafia

Il suicidio di Rita Atria, avvenuto una settimana dopo la strage di via d'Amelio, il 26 luglio 1992, "non fu dovuto a falle nel sistema di protezione, fu dovuto a problemi molto soggettivi, difficilmente si può trarre da quella morte un principio valido per tutti i testimoni di giustizia. Aveva 17 anni, le avevano ucciso il padre e il fratello a cui era legatissima. Era appartenente ad una famiglia di mafia".

Il quadro lo ha fornito oggi, in commissione Antimafia, il presidente del Tribunale di Marsala, Alessandra Camassa, rispondendo ad una domanda. "Quando Rita iniziò a collaborare con la giustizia - ha ricordato Camassa, che lavorò a lungo con Paolo Borsellino - c'è rabbia in lei, questo era il modo di vendicare l'uccisione del padre e del fratello. Iniziò a collaborare dicendo 'papà era un uomo straordinario che quando rubano le pecore le restituisce'. Per Rita tutto quel percorso è stato di tipo analitico, i suoi sono stati traumi continui": l'uccisione del fratello, che trafficava in droga e voleva uccidere i sicari del padre, l'omicidio del padre, poi l'assassinio di Borsellino.

"Rita aveva della giustizia una idea molto particolare: si affidò in modo personale a Paolo Borsellino", ha proseguito Camassa, secondo la quale il suo suicidio è legato al fatto che "la sua è la storia drammatica di chi per la prima volta ha trovato cose pulite e quando ha perso il riferimento di Borsellino" non ha retto.

Camassa ha delineato la figura di Rita Atria come quella di una ragazza "di grande intelligenza che si ostinava a incontrare la madre la quale poi le rivolgeva minacce del tipo: 'ti faro' fare la fine di tuo fratello'. Insomma, erano due mondi che non potevano parlare". Nelle collaborazioni femminili, ha detto infine il magistrato, "venne fuori la personalità morale di Borsellino che curò l'aspetto umano di queste giovani donne". 

Ecco il video dell'audizione di Camassa in Commissione antimafia: