C’è una storia di mafia e potere di cui in questa campagna elettorale si parla pochissimo, anche se riguarda il leader politico indicato dai sondaggi come il più probabile vincitore del voto di domenica 4 marzo. E' la storia di mafia, soldi in nero, ricatti, bombe e bugie raccontata nel processo che è costato una condanna definitiva a Marcello Dell’Utri. Dichiarato colpevole di aver fatto da mediatore, tesoriere e garante di un patto inconfessabile tra Silvio Berlusconi e Cosa nostra. Un patto con la mafia durato quasi vent’anni.
Il caso Dell'Utri è una vicenda cruciale nella biografia del miliardario imprenditore milanese. Dell’Utri è amico da una vita di Berlusconi ed è stato il suo braccio destro negli affari fin dagli anni Settanta, prima nell’edilizia, poi nella pubblicità televisiva. Tra il 1993 e il 1994 è lui che ha creato e organizzato in pochi mesi Forza Italia, il partito-azienda con cui Berlusconi ha conquistato anche il potere politico. Qui pubblichiamo un'ampia sintesi del caso Dell'Utri, estratta dalla nuova edizione del libro “Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, scritto da un giornalista de L'Espresso, Paolo Biondani, con il collega Carlo Porcedda, per l'editore Chiarelettere. Un libro che si caratterizza, tra i tanti saggi sul leader di Forza Italia, perché racconta solo i fatti che risultano verificati, comprovati e accertati in tutti i gradi di giudizio, nei processi che hanno portato alle condanne definitive di Dell'Utri per mafia, a Palermo, e di Berlusconi per frode fiscale, a Milano, con la sentenza del primo agosto 2013 che lo ha reso incandidabile. IL PROCESSO E LA CONDANNA DEFINITIVA DI DELL'UTRI Marcello Dell’Utri è stato condannato per «concorso esterno» in associazione mafiosa. Non gli si imputa di essere entrato in Cosa nostra con il rituale giuramento di affiliazione, né di essere diventato un «uomo d’onore» di una specifica «famiglia» mafiosa. L’accusa è di aver fornito dall’esterno un sostegno consapevole, determinato, stabile, rilevante, ma nel suo caso strettamente economico, in grado di favorire quell’organizzazione criminale che per decenni ha dominato con il sangue la Sicilia e condizionato l’Italia. È una forma di complicità indiretta, teorizzata per la prima volta dai giudici dello storico pool antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (…). Dell’Utri viene rinviato a giudizio a Palermo il 19 maggio 1997, quando è parlamentare di Forza Italia già da tre anni. Con lui finisce a processo un presunto complice, Gaetano Cinà, morto prima del verdetto definitivo della Cassazione. Il processo, lentissimo, è segnato da udienze rinviate per scioperi degli avvocati, assenze o malattie di testimoni o per non interferire con gli impegni politici di Dell’Utri. La sentenza di primo grado viene emessa l’11 dicembre 2004, dopo circa 300 udienze: il Tribunale di Palermo condanna Dell’Utri a nove anni di reclusione, giudicandolo complice esterno di Cosa nostra «da epoca imprecisata, e sicuramente dai primi anni Settanta, fino al 1998». Nel primo processo d’appello la condanna per mafia viene confermata, ma solo per il periodo 1974-1992. Per gli anni successivi i giudici di secondo grado decretano un’assoluzione per insufficienza di prove: i rapporti tra Dell’Utri, Berlusconi e Cosa nostra si possono considerare certi, «al di là di ogni ragionevole dubbio», solo fino all’anno delle stragi di Capaci e via d’Amelio. La pena è ridotta a sette anni di reclusione. La successiva Cassazione riconferma la piena colpevolezza di Dell’Utri per il periodo 1974-1978, considera provati i suoi rapporti con gli esattori della mafia anche nel successivo decennio 1982-1992, ma impone di riesaminare e approfondire, in un nuovo giudizio d’appello, cosa era successo tra il 1978 e il 1982, quando il manager aveva lasciato le aziende di Berlusconi per andare a lavorare con l’immobiliarista siciliano Filippo Alberto Rapisarda. Nell’appello-bis la nuova corte riapre la questione Rapisarda e rivaluta tutti gli altri dubbi sollevati dalla difesa. Anche questo terzo verdetto di merito ribadisce la colpevolezza di Dell’Utri, che risulta pienamente provata per l’intero periodo 1974-1992, e lo ricondanna a sette anni di reclusione. La Cassazione approva e rende definitiva la condanna il 9 maggio 2014, ma intanto Dell’Utri è scappato all’estero. La Procura di Palermo accerta che nel frattempo ha venduto una villa a Berlusconi incassando 21 milioni di euro, per metà trasferiti a Santo Domingo. Dell’Utri, dopo una breve latitanza, viene arrestato in Libano ed estradato in Italia, dove il 13 giugno 2014 entra in carcere per scontare la sua seconda condanna definitiva. La prima gli era stata inflitta negli anni di Tangentopoli come tesoriere dei fondi neri di Publitalia, la cassaforte pubblicitaria dell’impero Fininvest, da lui utilizzati anche per pagare consulenti politici (nome in codice: «operazione Botticelli») e fondare Forza Italia. VITTORIO MANGANO, UN MAFIOSO AD ARCORE Il primo pilastro della condanna di Dell’Utri è l’assunzione ad Arcore di Vittorio Mangano: un mafioso di Palermo che nel 1974 va a vivere a casa di Berlusconi. Il suo vero ruolo nella villa di Arcore viene svelato proprio da questo processo. Mangano è legato a Cosa nostra già dall’inizio degli anni Settanta. (…) Arrestato per la prima volta a Milano il 15 febbraio 1972, per una serie continuata di tentate estorsioni, il 27 dicembre 1974 Mangano torna in carcere per scontare una precedente condanna per truffa, e questa volta viene riammanettato proprio ad Arcore. Il 22 gennaio 1975 viene scarcerato per un cavillo legale e torna a vivere nella villa di Berlusconi, ma non è chiaro per quanto tempo. Di certo il primo dicembre 1975 viene riarrestato nelle strade dello stesso comune brianzolo per possesso di un coltello di genere proibito. Tornato in libertà il 6 dicembre 1975, sceglie ancora una volta la villa di Berlusconi come domicilio legale: è qui che le forze di polizia lo vanno a cercare per le notifiche, almeno fino all’autunno 1976. Nella seconda metà degli anni Settanta Mangano viene bersagliato da numerosi altri provvedimenti giudiziari. Il più grave è l’arresto, eseguito sempre nel territorio di Arcore, nel maggio 1980: Vittorio Mangano viene incriminato nella prima maxi-inchiesta del giudice Giovanni Falcone contro il clan Spatola-Inzerillo. Un’istruttoria fondamentale che, come evidenziano i giudici del caso Dell’Utri, per la prima volta ha svelato «un vastissimo traffico internazionale di eroina e morfina base, trasformata nei laboratori clandestini che il gruppo mafioso capeggiato da Salvatore Inzerillo controllava nel Palermitano. Droga che veniva poi smerciata grazie a una fitta rete di trafficanti anche all’estero», in particolare dal clan Gambino negli Stati Uniti. Le sentenze definitive di quel processo, acquisite nel giudizio contro Dell’Utri, documentano «il ruolo di primo piano rivestito da Mangano quale insostituibile tramite di collegamento nel traffico di partite di droga tra Palermo e Milano». (…) In questo inquietante spaccato di vita criminale, per i giudici di Palermo «costituisce un dato di fatto inconfutabile» che proprio a metà degli anni Settanta, cioè nel periodo in cui si rafforza il suo legame con Cosa nostra, «Vittorio Mangano è stato assunto da Silvio Berlusconi e si è insediato nella villa di Arcore con tutta la sua famiglia anagrafica» – la moglie, la suocera e le tre figlie – e che questo è successo «poco dopo l’arrivo di Dell’Utri a Milano e per effetto della sua mediazione». IL PATTO SEGRETO TRA BERLUSCONI E COSA NOSTRA Nel 1974, quando sposta ufficialmente il proprio domicilio ad Arcore, Mangano è già schedato dalle forze di polizia come un criminale legato alla mafia. Perché affidare proprio a lui, senza nemmeno informarsi sui precedenti penali, il ruolo di garante della sicurezza e gestore della proprietà di Berlusconi? La domanda resta senza risposte credibili fino al giugno 1996, quando viene estradato in Italia e inizia a collaborare con la giustizia un boss mafioso di altissimo livello, Francesco Di Carlo. (…) Di Carlo occupa una posizione unica all’interno di Cosa nostra, negli anni che vedono l’organizzazione criminale accumulare fortune immense con il traffico di eroina, gli stessi in cui inizia a essere attraversata da divisioni destinate a esplodere nella guerra di mafia che, tra il 1979 e il 1982, decreterà il trionfo dei corleonesi con lo sterminio dei vecchi padrini palermitani. Di Carlo infatti è tra i pochissimi a godere della fiducia, e a conoscere i segreti, di entrambi gli schieramenti mafiosi. Amico fin dall’infanzia di Stefano Bontate (chiamato talvolta, per errore, Bontade), per anni il boss più ricco e potente di Palermo, ha anche un fortissimo legame con i corleonesi, alleati del suo capomandamento Bernardo Brusca. Tanto che nel 1976 viene promosso al rango di capofamiglia per diretta volontà di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Intelligente, accattivante, rispettato da tutti, Di Carlo è in grande confidenza con Bontate, che lo chiama «il barone» per la sua eleganza e lo porta spesso con sé agli incontri eccellenti. Ma è anche nel cuore di Riina, che si fa accompagnare da lui in varie trasferte di mafia. (…). Per la sua posizione unica, Di Carlo ha potuto fornire rivelazioni decisive su molti delitti eccellenti, come gli omicidi dei carabinieri Emanuele Basile e Giuseppe Russo, dei giudici Cesare Terranova, Gaetano Costa e Pietro Scaglione, dei giornalisti Mario Francese e Peppino Impastato, nonché del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale presidente della Repubblica. Di Carlo parla di Dell’Utri fin dal suo primo interrogatorio come collaboratore di giustizia (…): «Ero a Milano con Bontate, Teresi e Cinà. Siamo andati nell’ufficio di Martello in via Larga, vicino al Duomo, che era una specie di ufficio di Cosa nostra. Guidava Nino Grado perché conosceva Milano bene. Dopo la riunione con Martello, Stefano Bontate mi disse che dovevano incontrare un industriale, un certo Berlusconi: a quel tempo il nome non mi diceva niente…» E qui precisa: «Bontate ha sempre trattato con politici, Teresi era un grosso costruttore, per cui non mi impressionavo che andassero a trattare con vari industriali. (…) A quei tempi era una cosa normale: ognuno, industriale o qualcuno, si rivolgeva a Cosa nostra o per mettere a posto un’azienda o per garantirsi». Prosegue Di Carlo: «Era il 1974, poteva essere primavera o autunno, ricordo che non avevamo cappotti: io avevo giacca e cravatta... Siamo andati in un palazzo di inizio Novecento, non una villa. (…) Qui ci viene incontro Dell’Utri, che io avevo già visto con Tanino Cinà. Con gli altri, compreso Bontate, Dell’Utri si è salutato con il bacio, a me con una stretta di mano. Con Grado già si conoscevano, perché avevano battute di scherzo e si davano del tu. Quindi siamo entrati in una grande stanza, con scrivania, sedie e mi sembra qualche divano, e dopo mezz’ora è spuntato questo signore sui trenta e rotti anni, che ci è stato presentato come il dottore Berlusconi. (…) Dell’Utri era in giacca e cravatta, Berlusconi con un maglioncino a girocollo e la camicia sotto. Dopo il caffè cominciarono i discorsi seri». «Teresi disse che stava facendo due palazzi a Palermo, Berlusconi rispose che lui stava costruendo una città intera e che amministrativamente non c’è molta differenza: ci ha fatto una specie di lezione economica. Poi sono andati nel discorso di garanzia, che “Milano oggi è preoccupante perché succedono un sacco di rapimenti”... Io sapevo che Luciano Leggio, quando era ancora libero, diceva che voleva portarsi tutti i soldi del Nord a Corleone... Stefano Bontate aveva la parola, perché era il capomandamento, io c’ero solo per l’intimità con lui. Berlusconi ha spiegato che aveva dei bambini e non stava tranquillo, per cui avrebbe voluto una garanzia, e qua gli dice: “Marcello mi ha detto che lei è una persona che mi può garantire questo e altro”. Allora Stefano Bontate fa il modesto, ma poi lo rassicura: “Può stare tranquillo, deve dormire tranquillo, perché lei avrà vicino delle persone che qualsiasi cosa chiede avrà fatto. Poi lei ha Marcello qua vicino, per qualsiasi cosa si rivolge a Marcello...”. E poi aggiunge: “Le mando qualcuno”.» Di Carlo chiarisce la frase del boss spiegando che per garantire una piena protezione mafiosa a Berlusconi «ci voleva qualcuno di Cosa nostra», perché Dell’Utri non era affiliato come uomo d’onore. E aggiunge che, appena Bontate ha pronunciato quelle parole, «Cinà e Dell’Utri si sono guardati». Una volta usciti dagli uffici di Berlusconi, prosegue il pentito, «Cinà ha detto a Bontate e Teresi: “Ma qui c’è già Vittorio Mangano, che è amico anche di Dell’Utri”». Di Carlo ricorda che «Stefano non ci teneva particolarmente, però Mangano era della famiglia di Porta nuova con a capo Pippo Calò, quindi era nel mandamento di Bontate. Per cui Bontate ha detto: “Ah, lasciateci Vittorio”». Di Carlo è un testimone oculare di quell’incontro ed è l’unico sopravvissuto tra i boss che nel 1974 siglarono quel patto tra Berlusconi e il vertice mafioso dell’epoca: Cosa nostra proteggerà l’imprenditore milanese, come previsto, affiancandogli l’uomo d’onore indicato da Cinà, d’accordo con Dell’Utri. «Ci hanno messo vicino Vittorio Mangano certamente non come stalliere, perché, non offendiamo il signor Mangano, Cosa nostra non pulisce stalle a nessuno» rimarca Di Carlo, sottolineando l’utilità della protezione mafiosa: «Ci hanno messo uno ad abitare là, a Milano: Mangano trafficava e nello stesso tempo Berlusconi faceva la figura che aveva vicino qualcuno di Cosa nostra... Basta questo in Cosa nostra, perché qualunque delinquente voglia fare qualche azione, si prendono subito provvedimenti». Cosa nostra non è un ente di assistenza. La sua protezione si paga. E il ricatto comincia subito, tanto da imbarazzare lo stesso incaricato della prima estorsione mafiosa. È sempre Di Carlo a descrivere questo passaggio, di poco successivo all’incontro con Berlusconi: «Tanino Cinà mi dice: “Sono imbarazzato, perché subito mi hanno detto di chiedergli 100 milioni di lire... Mi pare malo”. (…) E io gli dissi: “Ma tu chi ti ’na fari? Tanto sono ricchi... E poi ci hanno voluto”». L’incontro del 1974 tra l’allora trentottenne Silvio Berlusconi e il superboss Stefano Bontate, così come il contenuto del contratto mafioso mediato da Dell’Utri, è considerato una certezza da tutti i giudici che si sono occupati di questo caso, in tutti i gradi di giudizio. Le sentenze di merito elencano migliaia di pagine di riscontri oggettivi e testimoniali (…).